Al Lyndon Baynes Johnson Space Center di Houston, il pezzo forte, naturalmente, è la Apollo Mission Control Room (sala di controllo della missione Apollo): da anni non più in uso, ma inviolabile tempio delle glorie spaziali americane. Il più grande sacerdote delle quali ci ha appena lasciati: Neil Armstrong da Wapakoneta, Ohio. Primo uomo sulla Luna, e dunque colui che pronunciò le frasi “Houston, Aquila è allunato” e soprattutto l’immortale “Un piccolo passo per un uomo, ma un enorme passo avanti per l’umanità”.

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Ripensando a quella sala di controllo, torna alla mente quanto quel gigantesco passo avanti sia stato compiuto con mezzi che oggi appaiono quantomeno antidiluviani. Sulle singole postazioni (perscrutate dalle scene del film “Apollo 13″) primitivi video in bianco e nero e neppure una tastiera. Per comunicare da un operatore all’altro, la posta pneumatica. Per i calcoli matematici, niente più che un antico regolo. Ma tanto bastò: dodici anni dopo il primo satellite artificiale (lo Sputnik), otto anni dopo il primo uomo nello spazio (Juri Gagarin), furono gli americani e non i sovietici a fare per davvero quello che Ludovico Ariosto aveva fatto fare ad Astolfo nell’Orlando Furioso; che Jules Verne aveva immaginato nel suo “dalla Terra alla Luna” indovinando quasi miracolosamente con ottanta anni di preavviso molte caratteristiche del programma Apollo; e che John Fitzgerald Kennedy aveva annunciato nel 1961, affermando di aver scelto di andare sulla Luna in quel decennio non perché fosse facile, ma perché era difficile.

Tempo otto anni, e la kennediana profezia puntualmente si avverò: il 21 luglio 1969 come tutti sanno, e dunque entro il decennio preconizzato da JFK. Quattro giorni da Cape Canaveral al Mare della Tranquillità, e qualche interminabile secondo per scendere la scaletta del LEM sotto gli occhi di quell’intero pianeta distante quattrocentomila chilometri scarsi. Un pianeta che quel giorno si sentì più piccolo che mai, davanti a quelle immagini tra lo sbiadito e il trasparente di quell’astronauta che sobbalzava poco sostenuto dalla scarsa gravità lunare. E che poco dopo immortalò se stesso in una delle foto più famose della storia dell’umanità: che, scattata da Armstrong stesso, ritrae Buzz Aldrin sceso nel frattempo anche lui dal LEM, mentre l’immagine di Armstrong si coglie chiaramente riflessa nella visiera del casco di Aldrin.

Sembrava l’inizio di una nuova era per il genere umano. Già si sognava di colonizzare l’astro della notte, di uscire una volta per tutte da quel pianeta che di colpo sembrava per l’appunto divenuto troppo piccolo. In realtà, tutto si fermò presto: altri dieci uomini scesero sulla superficie lunare entro la fine del 1972, poi i tagli ai bilanci della NASA stopparono quelle costosissime missioni basate su veicoli monouso. Venne così più tardi lo Space Shuttle, quasi totalmente riutilizzabile anche nei suoi accessori ma rigorosamente confinato all’orbita terrestre. Dalla quale, di lì in poi, sono usciti soltanto satelliti. Così, il mito di Neil Armstrong da Wapakoneta, Ohio, rimase più grande che mai: salendo ieri verso al cielo, chissà se avrà avuto la sensazione di essere già passato da quelle parti…

Fonte: ZipNews.it

 

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