C’era da aspettarselo. Jobs, il film di Micheal Stern sulla vita di Steve Jobs, tra gli uomini più influenti della storia mondiale recente, fa discutere. E nemmeno poco. Steve Wozniak, socio e co-fondatore della Apple, dopo averlo visto lo ha addirittura definito “flat” piatto, privo di qualsiasi emozioni, un fallimento, insomma.

Senza voler entrare nel merito delle considerazioni di “Woz“, una cosa è certa: allo Steve Jobs magistralmente interpretato dal carismatico (e affascinante) Aschton Kutcher non viene risparmiato nulla. Forse questo approccio così crudo potrà disattendere le aspettative dei fan più fanatici del mito di Jobs, ma ad una lettura più alta (e solo forse più sofisticata), piace e non poco il fatto che Steve Jobs venga presentato come un uomo vero (per quanto la sua personalità lo rendesse possibile) e non come stella evanescente e astratta, mito di carne in transizione mistica su questo oscuro pianeta.

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Di qui una considerazione. In un bellissimo editoriale del Corriere della Sera di oggi (lunedì 18 novembre) dal titolo “JFK Cinquant’anni dopo”  Sergio Romano interrogandosi sull’eredità del personaggio John Fitzgerard Kennedy (del quale tra qualche giorno si compirà il cinquantesimo anniversario della morte), scrive: “Quanto maggiori sono i meriti attribuiti a un grande personaggio storico, tanto maggiori saranno i dubbi e le riserve con cui verrà, prima o poi, rivisto e corretto” e aggiunge “il moto del pendolo è ancora più accentuato in un’epoca in cui pochi avvenimenti sfuggono alla tendenza revisionista”. Per quanto Sergio Romano si riferisse ovviamente al caso di JFK, idolatrato e compianto presidente degli Stati Uniti scomparso troppo prematuramente, le considerazioni dell’ex ambasciatore  sembrano calzare a pennello anche per lo startupper di Cupertino.

Nel caso di Jobs infatti questo revisionismo è stato quanto mai estemporaneo. Ancorché in vita la sua figura era già controversa, non principalmente per il suo genio informatico quanto per l’etica della sua azienda. I tempi si sono così contratti da lasciare poco spazio alla creazione del mito di un uomo. Riflesso della disillusione della nostra epoca e della capacità del mondo di dare voce a tutte le voci, insinuando dubbi e domande. Per quanto il film non parli degli scandali legati e delle magagne internazionali della Apple, il tutto rimane in un certo senso in sottofondo.

Jobs non è solo (descritto come) un uomo straordinariamente ambizioso e intelligente  ma di lui vengono anche sottolineate le umane debolezze e gli errori giovanili, visti pur sempre nel puro spirito di Cupertino. L’arco temporale abbracciato dal film infatti va dagli albori della carriera creativa di Jobs nell’ormai famoso garage di Palo Alto (quello mostrato nel film è l’originale) fino alla scalata (ma meglio sarebbe dire alla creazione) delle vette dell’industria informatica statunitense.

Il film è piuttosto lontano dalla biografia ufficiale del giornalista Walter Isaacson (uno dei bestseller più letti degli ultimi anni) ma riconsegna l’immagine di un uomo e non di un mito. E forse proprio questa scelta risulta, in ultima analisi, se non vincente quanto meno (con)vincente e al passo con i tempi che in fin dei conti lo stesso Jobs ha così grandemente contribuito a realizzare.

Le emozioni che il film riesce a suscitare derivano quindi da quel profondo e (per quanto possibile) autentico avvicinamento all’uomo Jobs, che agli occhi di un disilluso ma rapito spettatore, rimarrà domani come oggi il papà dell’IPoi e l’autore di celebri frasi come: “solo le persone che sono abbastanza folli da voler cambiare il mondo, ci riusciranno“, o ancora “pensate in maniera differente dagli altri” ,”siate folli, siate affamati“, ma anche un individuo che ha molto sbagliato e che ha molto sacrificato per ottenere ciò per cui verrà ricordato.

Unica nota stonata in un film che vale assolutamente la pena di vedere è forse il bulimico isolazionismo al quale il regista condanna il suo Jobs: critica per giunta avanzata anche da Steve Wozniak al film. Apple (e tutte le altre fortunate avventure imprenditoriali sulle quali il film non si sofferma) non può che essere il risultato di un continuo e proficuo scambio di idee tra un team  di menti brillanti e non dell’intuito (per quanto geniale) di un solo uomo. Ma alla fine, come ha dichiarato Kutcher in risposta all’accusa di Wozniak, in effetti il titolo del film non è “Apple” ma semplicemente e forse lapidariamente “Jobs“, il folle, l’affamato Jobs.

 

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