Luciana Delle Donne è un’ex manager finanziaria che ha lasciato una brillante carriera nel settore bancario per diventare imprenditrice sociale. Luciana ha aperto due laboratori di sartoria nelle carceri femminili di Lecce e Trani, che danno lavoro ad una ventina di detenute e producono borse, shopper, braccialetti, sciarpe, portachiavi. Tutti gli accessori sono confezionati con tessuti riciclati e materiali di recupero e sono riconoscibili dal marchio “Made in carcere”.

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Nata a Lecce, Luciana ha studiato a Bari e si è poi trasferita a Milano, dove ha lanciato la prima banca online d’Italia e lavorato come manager finanziaria per un importante gruppo bancario. Nel 2004, all’apice della carriera decide di dare le dimissioni e tornare in Puglia per cambiare le sue priorità e ridare un senso alla propria vita. “Avevo una vita molto privilegiata, la casa in centro, tutti i benefit possibili, ma mi muovevo in una realtà falsata, dove c’erano numeri e non persone. Quando ero ormai arrivata al massimo della carriera, ho perso il senso di quello che stavo facendo. E ho lasciato tutto, senza tentennamenti”, ha raccontato Luciana alla stampa locale. “In quel momento ho sentito il forte bisogno di rendere alla mia terra quello che mi aveva dato. Volevo mettere a disposizione le mie competenze manageriali per creare un modello di sviluppo sostenibile che portasse ricchezza nel territorio. E ho pensato di farlo introducendo la cultura d’impresa in un progetto di inclusione sociale”.

All’inizio, aveva pensato di organizzare un percorso formativo per detenute, con lo scopo di poter imparare un mestiere che favorisse il loro reinserimento nella società lavorativa e civile. “Mi sono chiesta come potevo creare un modello di business sostenibile dove tutti vincevano. Volevo far risalire di un gradino queste persone, insegnando loro a fare cose semplici, come cucire, cosicché, una volta uscite, avessero in mano un mestiere”. Il corso è partito nel 2006 presso la casa circondariale femminile di Bari, ma si è improvvisamente interrotto perché tutte le aspiranti sarte sono uscite dal carcere a causa dell’indulto.

Luciana6“Mi sono detta: o chiudo e lascio perdere, o ricomincio. E non ho potuto fare altro che ricominciare, creando un nuovo team di sarte. Ho chiamato alcuni miei amici e ho chiesto se avevano tessuti inutilizzati, da buttare. Ne ho recuperati un sacco! Quando ho visto che tutti erano ben felici di donare queste stoffe, anche tessuti importanti però passati di moda, ho capito che potevo recuperare tutto il materiale necessario per lavorare a costo quasi zero”. E così, nel 2007, Luciana ha creato il marchio “Made in Carcere” e fondato un’impresa sociale e sostenibile, il cui scopo è dare una “seconda opportunità” alle detenute e una “nuova vita” ai tessuti.

Chi compra borse, shopper, braccialetti, portachiavi e sciarpe “Made in Carcere”, quindi, sostiene un progetto rieducativo che fa bene all’ambiente. “Credo che il rispetto del pianeta debba essere trasversale a ogni nostro gesto, a ogni azione che compiamo. I nostri manufatti sono belli e di qualità, non hanno niente da invidiare a quelli che si trovano nei negozi. La nostra ambizione è che i clienti li comprino non solo perché condividono la filosofia di un progetto inteso al reinserimento sociale, ma soprattutto perché ne riconoscono il valore”.

Oggi l’impresa sociale creata da Luciana dà lavoro ad una ventina di detenute, suddivise in due sartorie nei carceri di Lecce e Trani. Il ricavato delle vendite degli accessori “Made in carcere” va alle detenute, che percepiscono tutte un regolare stipendio. “Il rapporto con le donne che si impegnano nella confezione dei prodotti Made in Carcere è prima di tutto professionale. Io non chiedo mai perché si trovano in carcere”, ha detto Luciana. “Non pretendo né impongo una confidenza personale, lascio che nasca con il tempo e con la fiducia reciproca. Purtroppo la sartoria”, ha spiegato Luciana, “non può coinvolgere tutte le detenute, quindi bisogna meritarsi il posto. Che è un posto di lavoro con tutti i crismi: contratto, stipendio, orari, straordinari, ferie e assegni familiari. Ma prima si deve seguire un corso di formazione e poi riuscire a lavorare insieme agli altri, rispettare i tempi di consegna, garantire la qualità del prodotto”.

“Per persone che passano le loro giornate rinchiuse in una cella non è un impegno semplice. Ma è un percorso che aiuta a sentirsi nuovamente parte della comunità, a riconquistare la propria dignità. E quando si riesce a dare un contributo alla famiglia che è rimasta ad attenderci fuori, quando si possono pagare i libri per la scuola dei propri figli o si può fare un regalo di compleanno a un’amica, si comincia a proiettarsi nuovamente nel mondo, a fare progetti, a trovare gli strumenti per costruirsi un futuro migliore.”

Ed ha concluso: “Mi è sempre piaciuto ricostituire la cassetta degli attrezzi delle persone, dare loro una seconda possibilità. Perché ho questa missione? Mi viene facile, automatico. Ho sempre pensato che costruire il successo degli altri rappresentasse anche un mio successo. Mi piace vedere le persone felici, realizzate, che vanno avanti. Perché se vanno avanti loro, vado avanti anch’io”.

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Laura Pavesi

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