La saggezza dei proverbi a volte è più un mito che una realtà. Nulla di più falso – per esempio – del famoso detto “In amore e in guerra niente regole”.  In guerra le regole ci sono, eccome (un vero e proprio codice d’onore) e in quanto all’amore, basta far mente locale al rigido codice comportamentale che regolamentava l’ “amor cortese” per sfatare la leggenda. Lo sport non fa eccezione: ha i suoi valori e le sue regole e un sottile filo rosso lo lega tanto al mondo della guerra, tradotta e disciplinata in agonismo positivo,  quanto al mondo dell’ “amor cortese”, che di duelli e “singolar tenzoni” aveva fatto una religione e un vero e proprio codice disciplinare.

Disciplina: iniziamo il nostro “decalogo dello sportivo” con questa regola d’oro. Già, perché parlare di sport significa parlare in primo luogo di fatica e disciplina: sia che si discuta di nuoto, pattinaggio o ginnastica artistica, chi vive di agonismo sa bene che la conditio sine qua non per raggiungere i propri obiettivi è sottoporsi all’inderogabile disciplina dell’allenamento quotidiano. Lo sapevano bene anche i prigionieri del carcere londinese di Fleet Street, quando inventarono lo squash, cugino da camera del tennis che oggi rappresenta l’ideale sfogo di molti manager e businessmen in pausa pranzo e che paradossalmente, due secoli fa, era nato come passatempo, sfogo e involontaria autodisciplina dei carcerati. La disciplina è un passaggio obbligato per chi punta al successo e il successo – si sa – costituisce la meta di ogni sportivo; tuttavia, il cammino verso il traguardo non è mai una linea retta, ma una strada con dossi e curve che passa spesso e volentieri attraverso il faccia a faccia con l’ombra della sconfitta e del fallimento.

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J.Ruckert

Ma è proprio qui che un campione si distingue da un semplice talento: nella capacità di trasformare l’inevitabile impasse in occasione di superamento dei propri limiti. Come accadde alla semifinale dei 400 metri piani all’Olimpiade di Barcellona del 1992, per Derek Redmond quella è qualcosa di più di una gara: è la grande occasione di riprendersi la rivincita col destino che già una volta gli aveva tolto ciò che avrebbe meritato a causa dei numerosi infortuni…

C’è chi sa farlo da solo, chi ci riesce attraverso il gioco di squadra, uno dei valori di base di qualsiasi sport di gruppo. In questo senso, una delle immagini più belle, è forse quella del giovane Fausto Coppi al Giro d’Italia, in squadra con Gino Bartali sullo scosceso e difficile percorso dolomitico. 1940, l’entrata dell’Italia in guerra era alle porte. “Chi va forte in pianura, paga dazio in montagna” aveva detto poco prima “Ginettaccio” e la realtà gli aveva dato ragione: Coppi, piegato in due dalla fatica, era sceso dalla bici e sembrava non voler più continuare. Per la giovane e promettente maglia rosa, la sconfitta sembrava alle porte. Ma se Coppi aveva gettato la spugna, di certo non si era arreso Bartali, che piombato a capofitto sul ciclista piemontese aveva inveito “Sei un acquaiolo Coppi, sei solo un acquaiolo!” gettandogli in faccia manciate di neve. Uno scossone rude, nello stile veemente di Bartali, ma l’effetto era stato salutare: Coppi si era rimesso in sella e aveva vinto il suo primo Giro d’Italia.

I veri campioni se, accidentalmente, rimangono indietro, verranno sempre fuori alla distanza

Raffaele Caponetto

L’episodio parla chiaro e richiama in modo evidente un altro importante valore del decalogo dello sportivo: la grinta, ovviamente intesa non come forza bruta, ma come fame arrabbiata, opportunamente disciplinata e orientata verso uno scopo concreto.  In “A million dollar baby”, Clint Eastwood – nei panni di un allenatore di box solitario ed esacerbato dalla vita – si confronta con una giovane donna che tira pugni alla rinfusa, con quella grinta smisurata e arrabbiata che hanno solo i giovani. Il vecchio contempla la futura star, poi interviene, pone un freno alla gragnola di colpi tirati alla rinfusa. E sfodera una verità valida in qualsiasi contesto: Non importa la violenza del colpo, quanto colpire nel modo giusto.

La grinta non basta però e al nostro ideale decalogo dello sportivo è necessario aggiungere anche altri valori: costanza, attitudine a migliorare tenacemente se stessi, capacità relazionalie soprattutto rispetto a 360 gradi per un avversario che deve essere sempre visto come tale e mai come nemico. Il cosiddetto “terzo tempo” del rugby è forse da questo punto di vista uno degli esempi più belli di questa necessità di rispetto: si tratta infatti del momento conviviale per eccellenza, un incontro festaiolo che viene organizzato a fine partita tra gli avversari delle due squadre. Il terzo tempo è sicuramente un momento ricreativo, ma ha anche un’evidente valenza simbolica: esprime cioè, la volontà di “deporre le armi”, uscire dal campo e ristabilire un rapporto di cordiale parità con l’avversario.

Lo sport non ha barriere di sangue né di opinioni. Nello sport non vi sono e non vi debbono essere stranieri

Gianni Brera

Mancano però ancora due valori perché il nostro decalogo sia completo; il primo è rivelato dal celebre detto “prendere le cose con sport” ed è il divertimento, la necessaria e saggia dose di leggerezza (ma non di superficialità) che è alla base di ogni atto creativo e che traccia un ideale trait d’union tra il mondo dello sport e quello – apparentemente così lontano – dell’arte. E poi, last but not least, c’è la passione, l’altra faccia della grinta: il passaporto che trasforma una banale competizione in percorso di vita, come traspare dalle bellissime parole di Pietro Mennea…

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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