A distanza di cinque anni dalla prima edizione, è di recente uscita – pubblicata dalla FrancoAngeli e con la prefazione dello psicologo e sociologo Enrico Cheli – una nuova versione del libro Le ragioni della felicità. Al suo autore Christian Boiron abbiamo rivolto alcune domande su un volume che (come anticipa il sottotitolo) promette “contenuti e definizioni del piacere e della felicità”. Per giungere alla conclusione che, ricercata perennemente da ciascuno di noi, la felicità è uno stato fisiopatologico accessibile a tutti, indipendentemente dall’età, dalla salute o dalle condizioni economiche individuali.

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Monsieur Boiron, dopo il drammatico attentato dell’11 settembre 2001 il mondo ha più bisogno di parlare di “felicità”?

“In realtà, l’uomo ne ha costantemente bisogno. Non solo in noi non viene mai meno la sete di felicità, ma anzi ne avvertiamo sempre più la necessità. La voglia di felicità è il primo desiderio dell’uomo, e dietro ogni atto ed ogni azione umana si trova la ricerca della felicità”.

Di fatto, l’uomo è perennemente in crisi. Ma oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, siamo in grado di capire la differenza fra piacere e felicità, nonché di comprendere come funziona la felicità stessa: pertanto, è lecito affermare che essa è sempre più a portata di mano.

Dopo cinque anni ho solo avvertito il desiderio di rilanciare e condividere queste ipotesi sulla felicità, anche perché talvolta non riusciamo a capire il suo “funzionamento”. La felicità non dipende dalla bellezza, né dalla ricchezza, e neppure dalla salute: insomma, da nessuna di quelle cose che, a torto, vengono ritenute chiave della felicità.

A quale età si diventa consapevoli della felicità?

“Senza dubbio solo dopo l’adolescenza. Noi di solito cerchiamo la felicità dopo i 30 anni, ancora più facilmente verso i 40 (prima, siamo alla ricerca del piacere). Anche se vi sono alcuni casi individuali in cui, per via di traumi o eventi simili, una persona matura prima di tale età. Ma, altrimenti, è certo che più si invecchia più si è consapevoli della propria felicità.

La capacità di essere felici dipende dai nostri condizionamenti, e la vecchiaia toglie progressivamente i condizionamenti umani”.

Esistono persone più o meno predisposte alla felicità, o si può imparare a farla propria? E, in questo secondo caso, come?

“Entrambe le cose. Comunque, l’uomo è fatto per diventare felice, e per fortuna il livello medio della felicità aumenta automaticamente.

Per quanto riguarda l’educazione da impartire ai propri figli, ad esempio, essa deve avvenire secondo quelli che io definisco “condizionamenti biodegradabili”. Mi spiego: il bambino ha bisogno di un condizionamento da parte dei genitori. Pertanto, è giusto dargli regole, ma senza “drammatizzare”. E’ un po’ ciò che succede con un tutore da adattare ad una pianta: se facciamo nodi troppo stretti, uccideremmo la pianta. Quindi, per l’educazione di un bambino, un sì netto ai condizionamenti solo a patto che si diluiscano nel tempo: che diventino, per l’appunto, “biodegradabili”.

Perché si è fatta sempre confusione fra il piacere e la felicità?

“Per il semplice fatto che non si distinguevano le tre parti del nostro cervello: rettiliano (dove risiedono funzioni fisiologiche e istinti basilari), limbico (zona dell’apprendimento e delle emozioni) e corticale (sede del ragionamento e dell’intelligenza).

Altra confusione da evitare è quella fra felicità e serenità. Quest’ultima è la conseguenza dello stato di felicità. Mentre un secondo tipo di serenità è data dall’assunzione di alcuni farmaci.

Anche le emozioni sono state sopravvalutate: in realtà esse sono vere e proprie trappole della vita, erroneamente concepite come il sale della vita. L’emozione è sì in grado di dare un piacere, ma si tratta di un falso amico che segnala l’esistenza di un problema”.

Nel Suo libro si suggerisce di “addomesticare la morte”. Pensa che nel mondo occidentale sia possibile ottenere questo obiettivo?

“Si tratta di un circolo vizioso: meno ne parliamo, più ne abbiamo paura. Accettare la paura della morte vuol dire accettarla e confrontarsi con essa. Il che si può fare, anche, ricorrendo ad “esercitazioni pratiche”, come esercizi di meditazione, letture, visitando gli ospedali… Altrimenti, si rischia di cadere nella fobia, ossia la paura della paura.

E comunque finora abbiamo chiesto alla filosofia di trovare la felicità, mentre questo è un compito che spetta alla psicologia”.

Per finire, ritiene che una pubblicazione come “Buone Notizie” possa avere qualche rapporto con la felicità?

“Certo, e per più motivi. Ciò che desidero sottolineare è che la differenza fra le buone notizie e le altre non sono i contenuti, ma la decodificazione di queste informazioni. Il problema è “che cosa penso di questo”. E che cosa provo (qui ci rapportiamo al mondo limbico). Oppure, finisce che rifiuto la realtà. Mentre è sempre necessario distinguere fra la realtà e la comunicazione. Ed essere consapevoli che il mondo è sempre più felice. Basti pensare alle condizioni di vita di qualche secolo fa, quando la peste, ad esempio, decimava intere popolazioni, o tornare indietro di un millennio, all’epoca del MedioEvo, quando si praticava la tortura.

 

Christian Boiron è Presidente e Direttore Generale della più importante azienda di medicinali omeopatici nel mondo, Christian Boiron, farmacista, da sempre appassionato del sociale e della ricerca, trae dalla sua attività di capo d’azienda e dalla sua esperienza politica alcune importanti riflessioni sui grandi temi d’attualità: disoccupazione, recessione economica, droga, violenza. Già autore di “E se pensassimo altrimenti la vita?”, in questo volume propone una definizione scientifica della felicità, distinguendola nettamente dal piacere.

 

Intervista pubblicata sul n.5 di BuoneNotizie.it – l’altra attualità (novembre 2006)

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Minnie Luongo

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