Salvare Venezia dalla subsidenza è possibile. Basterebbe pompare acqua marina nel sottosuolo della città per 10 anni: lo sostiene Giuseppe Gambolati, professore di Metodi generici per l’Ingegneria all’Università di Padova.

 

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Lo studio messo a punto dal prof. Gambolati in collaborazione con l’Ismar (l’istituto del Cnr che effettua ricerche nell’ambito delle aree polari, oceaniche e mediterranee), prevede l’iniezione di acqua marina nel sottosuolo della città lagunare, a circa 700-1000 metri di profondità. L’irrigazione sotterranea avverrebbe attraverso 12 pozzi dislocati in un raggio di 10 Km all’interno del territorio urbano e, in una decina di anni, consentirebbe un sollevamento della città di circa 30 cm. L’operazione, la cui attuazione secondo il prof. Gambolati richiederebbe uno studio preliminare del costo approssimativo di 30 milioni di euro, costituirebbe una risposta efficace ad una problematica di primaria urgenza: si calcola, infatti, che dagli inizi del Novecento, Venezia sia sprofondata di circa 13 cm.

Il cedimento del terreno è avvenuto in modo diverso nelle differenti aree urbane ed è – grosso modo – determinato da due ordini di fattori: motivi naturali e prelievo di acqua dolce dal sottosuolo. A ciò si aggiunge un’ulteriore aggravante: l’innalzamento generalizzato del livello dei mari. In questo senso – a detta dello stesso prof. Gambolati – la proposta padovana non rappresenta un’alternativa, ma un complemento al MOSE – il sistema integrato di paratoie mobili pensato per proteggere la città lagunare dalle “acque alte” (ricordiamo, per inciso, la disastrosa inondazione del 1966).

In sostanza, lo studio di Giuseppe Gambolati rappresenta una proposta ingegnosa, ma non nuova. Lo studioso padovano lavora sul tema della subsidenza di Venezia sin dal 1972 e già nel 2005 aveva esposto le linee generali della sua proposta attuale. Sette anni fa, la proposta di Gambolati non rappresentava altro che un’ipotesi ardita e, secondo alcuni, azzardata. Ad esempio, il prof. Michele Jamiolkowski del Politecnico di Torino aveva bollato, senza mezzi termini, l’ipotesi del collega “un’idea fantascientifica”, obiettando che la diversità costitutiva del meccanismo di sollevamento del suolo e del meccanismo di abbassamento del medesimo, avrebbero potuto compromettere l’incolumità dei palazzi veneziani.

Oggi, però, l’ipotesi di Gambolati si è concretizzata in una proposta reale, con un ulteriore (e non trascurabile) valore aggiunto: il “respiro internazionale”. Lo studio veneto, pubblicato su “Water Resources Research” prende spunto da una soluzione analoga testata quarant’anni fa in California, a Long Beach, su territori in cui l’estrazione petrolifera aveva provocato un fenomeno di subsidenza simile a quello di Venezia. Va sottolineato, inoltre, che la pubblicazione dello studio di Gambolati segue di pochi mesi il convegno newyorkese che si è sviluppato intorno al progetto MOSE e al potenziale interesse per le tecnologie italiane al fine di proteggere la baia di New Orleans.

Sinergia e allargamento di orizzonti, quindi: parole d’ordine che rendono lo studio padovano qualcosa di diverso da un unicum isolato e che presentano una possibile soluzione al problema veneziano nell’ambito di una prospettiva internazionale.

Per approfondire:

Venezia: energia pulita dalle onde del mare e della laguna       
Energia verde ed ecosostenibilità per il porto di Genova

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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