Ci sono strette di mano che hanno cambiato la storia. Quella tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, per esempio, la ricordiamo tutti. Era il novembre dell’ ‘85 e con quell’incontro si chiudeva – o meglio, prometteva di chiudersi – la lunga parentesi della Guerra Fredda. La stretta di mano fra Barack Obama e Raul Castro, ha certamente avuto un’eco minore, eppure non c’è dubbio sul fatto che abbia celebrato una svolta epocale nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba. Così, dopo più di mezzo secolo – 56 anni, per la precisione – il ministro degli esteri cubano, Bruno Rodriguez, si è recato negli Stati Uniti e la bandiera di Cuba è tornata a sventolare in quel di Washington. Il 20 luglio hanno riaperto i battenti l’ambasciata cubana negli USA e l’ambasciata statunitense a Cuba e il 14 agosto il segretario di stato americano, John Kerry, si recherà in visita all’Avana. Un traguardo storico.

«La ripresa dei rapporti diplomatici fra Cuba e Stati Uniti avrà senso solo se gli Usa rimuoveranno l’embargo e restituiranno a Cuba la base di Guantanamo, nella zona orientale dell’isola», ha puntualizzato Bruno Rodriguez. Come a dire: la tanto celebrata normalizzazione dei rapporti diplomatici procede sulla via del dialogo, non della resa. Il che, dopo 53 anni di embargo, risulta tutt’altro che scontato. Sembrava utopia nel ’61, quando gli USA tentarono lo sbarco nella Baia dei Porci o quando – a embargo dichiarato – l’installazione di una base missilistica sovietica sull’isola caraibica, rischiò di innescare lo scoppio della terza guerra mondiale, schivata in extremis da un incontro storico tra Kennedy e Krusciov. Sembrava utopia, allora. Eppure oggi ci si è arrivati, all’utopia. Non all’accordo – beninteso – ma alla normalizzazione sì e il traguardo non è stato raggiunto per caso ma passo passo, anche grazie all’opera di un personaggio politico in fondo molto poco conosciuto.

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Sono passati quasi 10 anni dall’abdicazione di Fidel a favore del fratello, e del nuovo capo di stato Raul Castro – clamorosamente – non si parla moltissimo. Eppure, se dopo decenni di chiusura radicale da ambo le parti si è arrivati a una svolta, il merito non è solo della disponibilità degli Usa a cambiare rotta,  ma anche  – in buona parte – dei cambiamenti introdotti più o meno in sordina da Raul. La trasformazione è iniziata nel 2008, sotto il segno emblematico della tecnologia e dell’apertura alla modernità: a Cuba sono sbarcati i computer, seguiti a ruota da cellulari e altri utensili tecnologici precedentemente vietati dal regime. Un anno dopo, è stato annunciato il via libera all’uso della rete e i Cubani hanno iniziato ad attraversare le colonne d’Ercole degli internet point, fino ad allora appannaggio esclusivo dei turisti. Cuba ha cominciato poco alla volta a mettere in discussione la propria ‘insularità’: quell’isolazionismo che rappresenta, almeno in parte, una delle più evidenti conseguenze del bloqueo economico.

La svolta è poi proseguita sul fronte dei salari, dove è stato introdotto il principio di differenziazione. Lavori di più? È giusto che tu venga pagato di più. Il socialismo è uguaglianza di diritti, non egualitarismo di salari. Gli insegnanti, sono i primi che si sono visti aumentare lo stipendio ma già prima del mandato presidenziale, Raul Castro aveva contribuito a sbloccare il famigerato ‘prezzo fisso’ corrisposto dallo Stato ai campesinos per la vendita – obbligata – di prodotti agricoli. Insieme ai prezzi delle derrate, peraltro, è stato sbloccato anche il consistente debito contratto dallo Stato nei confronti dei contadini, storici creditori della compagine governativa.

Consistenti, anche i cambiamenti attuati sul fronte – delicatissimo – della libertà di circolazione e nell’ambito dei diritti umani e civili, come emerge dall’incremento delle scarcerazioni e dalla sensibile riduzione del numero di detenuti per motivi politici. Certo, c’è ancora molto da fare ma quella promossa da Raul Castro è stata ed è una vera e propria rivoluzione in sordina, che ha marcato il tramonto di un’ideologia e – di conseguenza – l’umanizzazione di un’utopia. Una strada affine – anche se apertamente democratica – l’aveva già tentata in Cile Salvador Allende, 40 anni prima. Con risultati disastrosi, come dimostrò il colpo di stato pinochettista del ’73. I tempi non erano maturi ma oggi, forse, qualcosa è cambiato. Sul piano della politica internazionale, almeno, il segnale sembra netto e diventa sempre più pensabile che in un futuro prossimo, la ‘normalizzazione’ si trasformi in accordo.

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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