Sono passati più di due mesi dalla morte di George Floyd, afroamericano di 46 anni morto per mano della polizia di Minneapolis. Un evento che ha avuto ripercussioni anche nel mondo dello sport, capace di svolgere il ruolo di cassa di risonanza per alcune prese di posizione sociali contro il razzismo che hanno goduto di un’eco importante. Prese di posizione figlie di gesti e storie che hanno visto sportivi battersi per sensibilizzare l’opinione pubblica. Dal baseball negli anni ’40 del Novecento fino al football americano negli anni ’20 del 2000.

Il primo afroamericano nella storia della MLB

Nell’aprile del 1947 un uomo cambia per sempre le sorti dello sport americano. Il suo nome è Jack Roosevelt Robinson, soprannominato Jackie, e con i Brooklyn Dodgers divenne il primo giocatore afroamericano della Major League Baseball, il massimo campionato d’America. Un evento dal significato rilevante se si considera che all’epoca vigeva la cosiddetta baseball colour line, accordo non scritto che impediva agi atleti afroamericani di calcare i campi della MLB. Il suo esordio nella Grande Mela con i Brooklyn Dodgers avvenne davanti a 23 mila spettatori il 15 aprile del 1947 e ancora oggi tale giorno dell’anno viene ricordato come il Jacky Robinson Day.

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Come si può ben immaginare la sua avventura non fu facile dal punto di vista ambientale, sia esterno sia interno. A difenderlo ci pensò Leo Durocher, manager dei Dodgers, il quale rilasciò pubblicamente la seguente dichiarazione di vicinanza e di contrapposizione al razzismo imperante nel suo sport:

Non importa se Jack è giallo o nero, o se ha le strisce come una dannata zebra. Sono il manager di questa squadra e dico che lui gioca. Inoltre dico che ci può rendere tutti ricchi.

Leo Durocher

Smith e Carlos, dalle Olimpiadi alla storia

Siamo a Città del Messico nel 1968, più precisamente allo Stadio Olimpico alla premiazione della gara dei 200 m piani. Sono due gli americani sul podio: Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente Oro e Bronzo, separati nella classifica finale dall’australiano Peter Norman. Sono anni importanti dal punto di vista dei diritti civili degli afroamericani e solamente sei mesi prima era stato assassinato Marthin Luther King a Memphis. Perché tale premiazione è rimasta nella storia? Per il gesto di protesta da parte dei due corridori americani. Una volta ricevute le medaglie e risuonate le prime note dell’inno entrambi indossarono dei guanti neri, alzarono un pugno chiuso e abbassarono la testa.

Un gesto che ebbe un’eco mediatica incredibile e immortalato da alcuni scatti che sono diventati un’autentica icona. In seguito Smith dichiarerà che tale gesto non fosse solamente per i diritti degli afroamericani, bensì un gesto di protesta per i diritti umani in generale. Importante anche il simbolismo che i due adottarono durante la premiazione: una collana di perle per rievocare i linciaggi degli afroamericani, scalzi con calze nere per rappresentare la loro povertà e, infine, sciarpa nera e tuta sbottonata come gesto di solidarietà per i lavoratori americani.

Protesta di Smith e Carlos in Messico nel 1968 (© Twitter)

Protesta di Smith e Carlos in Messico nel 1968 (© Twitter)

Muhammad Ali e il suo gran rifiuto

Un altro sportivo afroamericano che ha lasciato il segno nel corso del Novecento è sicuramente Cassius Clay, meglio conosciuto come Muhammad Ali, autentica leggenda del pugilato. Atleta tanto vincente sul ring quanto carismatico al di fuori, nel 1967 si rese protagonista di un gesto che è passato alla storia: il rifiuto di combattere nella Guerra in Vietnam in quanto obiettore di coscienza. «Non ho niente contro i Viet Cong», dichiarò pubblicamente, «loro non mi hanno mai chiamato “negro”», andando incontro ad una condanna a cinque anni di prigione e alla privazione del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi. In seguito Martin Luther King gli dimostrò solidarietà:

Come dice Muhammad Ali, siamo tutti neri e povere vittime dello stesso sistema di oppressione.

Martin Luther King

Razzismo? Nello sport risponde Kaepernick

Tornando ai nostri giorni l’emblema della lotta per i diritti civili degli afroamericani non può che essere ricollegata a Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers nella National Football League fino alla stagione 2016, al termine della quale non gli venne rinnovato il contratto. Perché la franchigia escluse dal roster il giocatore di Milwuakee? Perché non gli fu offerto alcun contratto in seguito?

Tutto cominciò all’inizio della sua ultima stagione da professionista quando, durante l’inno americano tipicamente fatto risuonare prima di ogni sfida, Kaepernick decise di non cantare l’inno e di procedere con il kneeling, gesto di inginocchiamento in segno di protesta contro un Paese che,  suo dire, non rispetta le minoranze, in particolare quella afroamericana.

Un gesto semplice ma efficace che in pochi giorni si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra critiche ed emulazioni, sia in ambito sportivo sia nella vita di tutti i giorni. Un gesto che rese Kaepernick un simbolo nella lotta per i diritti civili ma che troncò la sua carriera professionistica. Nessuna franchigia infatti gli offrì più un contratto in NFL nonostante il clamore mediatico della situazione. Nel 2018 il quarterback divenne l’uomo immagine della nuova campagna della Nike al grido di «credi in qualcosa anche si significa sacrificare tutto».

Dopo Floyd lo sport risponde contro il razzismo

Il caso relativo all’uccisione di George Floyd ha spinto numerosi atleti nel mondo dello sport ad agire per sensibilizzare l’opinione pubblica contro il razzismo. Nel calcio ci sono state importanti prese di posizione, come nel caso del kneeling di entrambe le squadre prima della sfida di Bundesliga tra Borussia Dortmund ed Hertha Berlino, con la maglietta indossata dai giocatori gialloneri con su scritto “United together” and “No justice, no peace”.

Gesto di solidarietà di Borussia Dortmund e Hertha Berlino prima della partita di Bundesliga (© Twitter)

Gesto di solidarietà di Borussia Dortmund e Hertha Berlino prima della partita di Bundesliga (© Twitter)

Prese di posizione importanti anche in altri sport come nel caso di Nick Kyrgios e Serena Williams nel tennis, Lewis Hamilton in Formula 1, oppure della quasi totalità dei giocatori di NBA, massimo campionato di pallacanestro americano in cui uno schieramento di giocatori in segno di protesta contro il razzismo nello sport e non solo aveva perfino messo in dubbio la sua presenza alla ripresa post COVID-19 del torneo ad Orlando, in Florida.

Michael Jordan: dalle accuse alla donazione milionaria

Rimanendo nella pallacanestro, una presa di posizione ha fatto scalpore per la sua contrapposizione con il passato. Si sta parlando di Michael Jordan, colui che viene definito da tutti in questo sport come il GOAT, ovvero il Greatest Of All Time. Come ricordato nel celebre documentario The Last Dance, prodotto da Netflix e trasmesso per la prima volta ad aprile, nel 1990 Jordan fu protagonista di una situazione controversa. La guarda dei Chicago Bulls era già una star mondiale quando il politico Harvey Grantt era in corsa per un seggio da senatore per la North Carolina, con la possibilità di diventare dunque il primo senatore afroamericano della storia.

Una parte dell’opinione pubblica, attenta ai temi sociali toccati da Grantt, chiese a Jordan di esporsi nei suoi confronti per potergli permettere di entrare in Senato. Il cestista tuttavia non si espose, rendendosi protagonista di un’uscita controversa: «Anche i repubblicani comprano le scarpe», in riferimento al suo impegno con la Nike. Una frase che verrà definita da lui come ironica ma che tuttavia non precedette una presa di posizione, con Grantt che venne in seguito sconfitto alle elezioni. Jordan venne così criticato da parte da quella parte di opinione pubblica che gli chiedeva di esporsi. Queste le sue dichiarazioni su The Last Dance:

Non mi sono mai considerato un attivista, bensì un giocatore di pallacanestro. Non ero un politico ma uno sportivo, e mi concentravo su quello. Fui egoista? Probabilmente. Ma era a quello che dedicavo tutte le mie energie.

Michael Jordan

Tutto cambia però circa un mese fa, quando lo stesso Michael annuncia lo stanziamento di 100 milioni di dollari in dieci anni a «a varie organizzazioni di tutto il Paese che lottano per il raggiungimento dell’eguaglianza razziale, della giustizia sociale e per un accesso più ampio all’educazione». Una presa di posizione che alcuni hanno visto come opportunistica per il successo riscosso dalla docuserie di Netflix e tardiva rispetto a quanto accaduto nel 1990, ma che altri hanno apprezzato soprattutto per la sua entità e per le parole ad essa associata:

Finché il razzismo che si annida nelle istituzioni di questo Paese non sarà estirpato continueremo a impegnarci per proteggere e migliorare le condizioni di vita della gente di colore.

Michael Jordan

Sport come antidoto al razzismo

L’uccisione di George Floyd non ha fatto altro che riportare alla mente quanto grandissimi uomini di sport, con coraggio e orgoglio, hanno cercato di fare fino dalla metà del Novecento: essere più grandi del proprio sport per combattere per l’uguaglianza, per i diritti fondamentali dell’uomo. In questo contesto lo sport cambia connotazione passando da contenuto a strumento per messaggi sociali dal carattere inestimabile. Prese di posizioni che spesso sono costate care ai protagonisti, i quali verranno comunque ricordati sempre come coloro che hanno nobilitato lo sport con le loro battaglie. E non esistono cambiamenti senza coloro che li ispirano.

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Matteo Calautti

Matteo Calautti

Esterofilo e curioso osservatore di politica e attualità. Fondatore di Liguria a Spicchi e responsabile della comunicazione del Comitato Regionale Liguria di pallacanestro. Scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare pubblicista.

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