La scarsità idrica e l’importanza dell’acqua per le attività umane la rendono un bersaglio strategico durante i conflitti, nonché un obiettivo sociale e politico di primo piano. Non è un caso che, attualmente, in giro per il mondo, si registrino numerose guerre dell’acqua: dal 2020 a oggi se ne contano oltre 200, di cui 140 solo per l’accesso a una particolare fonte idrica.

Cosa sono le guerre dell’acqua

Secondo il paper Water-related conflicts di Peter H. Gleick e Morgan Shimabuku, esistono principalmente tre tipologie di guerre dell’acqua: water as a trigger (acqua come innesco), water as a weapon (acqua come arma) e water as a casualty (acqua come vittima).

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Nel caso del water as a trigger, l’acqua viene considerata come il fattore scatenante o la causa principale di un conflitto. In questo caso lo scontro può divampare a causa di una disputa per il controllo fisico o economico dei sistemi idrici o a causa di una grave scarsità d’acqua che spinge una comunità a muovere contro l’altra. Nel corso degli ultimi anni migliaia di persone hanno perso la vita cercando di accaparrarsi l’accesso a una fonte d’acqua potabile: in Sahel, per esempio, si registrano ogni anno numerosi scontri tra gruppi di agricoltori e pastori nomadi, che si trovano spesso a combattere per assicurarsi l’utilizzo di alcuni pozzi d’acqua.

Per quanto riguarda la water as a weapon, l’acqua o le infrastrutture idriche, durante i conflitti, vengono utilizzate come armi intenzionali. In questo caso, l’acqua può essere utilizzata come arma per avvelenare la popolazione, per privarla della fornitura idrica o ancora con lo scopo di inondare particolari aree per scopi strategici. Nel 2017, per esempio, i terroristi somali del gruppo al Shabaab, affiliato ad Al-Qaeda, hanno causato la morte di oltre 30 persone dopo aver avvelenato un pozzo d’acqua. Nel 2022, invece, l’Ucraina ha rilasciato intenzionalmente l’acqua da una diga sul fiume Dnepr per allagare il territorio a nord di Kiev e rallentare l’avanzata delle colonne corazzate russe.

C’è poi il caso del water as a casualty, ossia quando le risorse idriche, i sistemi idrici o le persone coinvolte nella loro gestione, i dipendenti, sono vittime intenzionali o accidentali del conflitto. Infine, si può citare il fenomeno del watergrabbing, o accaparramento dell’acqua, attraverso cui governi o grandi industrie cercano di prendere il controllo o di deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole alle esigenze di  comunità locali o di intere nazioni.

Cercare di evitare l’insorgere o l’inasprimento dei conflitti per l’acqua

L’insicurezza idrica, l’inquinamento e i cambiamenti climatici in generale rappresentano una minaccia crescente per la salute umana e per la stabilità di molti Paesi. Rispondere a queste sfide non è facile, ma secondo il rapporto Ending Conflicts over Water esistono alcune strategie che i governi possono mettere in campo per ridurre i conflitti legati all’acqua (almeno quelli che riguardano la water as a trigger).

Per esempio, oltre a massicce campagne di sensibilizzazione, è necessario un monitoraggio che contribuisca a rilevare problemi e criticità. A questo proposito la partnership Water, Peace, and Security (WPS) ha sviluppato uno strumento di allerta, a livello globale, che identifica le aree ad alto rischio di tensione, basandosi su indicatori come piogge, salute dei raccolti, livelli di povertà etc.

I Paesi, poi, possono risparmiare molta acqua migliorando l’efficienza complessiva dell’irrigazione agricola, che richiede circa il 70% del consumo annuale d’acqua dolce, e promuovendo la coltivazione di piantagioni che necessitano di poca acqua.

A questi provvedimenti si aggiunge il miglioramento dell’efficienza delle reti idriche e l’eliminazione degli sprechi. Basti pensare che in Iraq solo un terzo dell’acqua potabile trattata arriva effettivamente ai consumatori, con una perdita complessiva di circa il 68%. A tal proposito, quindi, è più facile ed economico ridurre le perdite nei sistemi idrici urbani che trovare nuove fonti d’approvvigionamento idrico.

C’è, infine, un caso virtuoso che merita di essere citato: la Restoration Initiative nel Delta del Tana, Kenya. Territorio, questo, dove la scarsità d’acqua e di terra, nel 2012, aveva portato alla morte di 286 persone, a seguito di uno scontro tra agricoltori e pastori per l’utilizzo delle risorse idriche. Dopo aver coinvolto le due comunità in un processo decisionale collettivo sull’utilizzo di queste risorse, l’iniziativa ha permesso a oltre 100 villaggi di ripensare la gestione delle proprie risorse naturali e di ridurre le tensioni.

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Marzio Fait

Marzio Fait

Marzio Fait. Svolgo un progetto di servizio civile presso il Forum trentino per la pace. Ho partecipato come observer alla COP 27 e alla COP28. Mi occupo di attualità, di diritti umani e di giustizia climatica. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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