Può sembrare il folle sogno di un socialista utopista, ma il caso del piccolo villaggio di Marinaleda è incredibilmente concreto. Piccolo comune non distante da Siviglia, è balzato agli onori della cronaca perché rappresenta un esperimento sociale ed economico quanto meno interessante. Nel bel mezzo della più grave crisi del Dopoguerra, con la disoccupazione al 30% in Spagna e al 13% da noi, il paesino governato dalla fine degli anni ’70 dal sindaco Gordillo registra un roboante 0% di senza lavoro.

Com’è possibile? Beh, innanzitutto perché il primo cittadino non si vergogna di usare una parola che, di questi tempi, non viene accreditata di troppa fiducia: utopia. Il modello amministrativo adottato a Marinaleda, infatti, sembra la traduzione, in chiave agricola, dei progetti di Robert Owen e dei suoi villaggi autosufficienti, che si studiavano al liceo.

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Le parole d’ordine a Marinaleda sono cooperazione e cittadinanza inclusiva. La comunità collabora alla fornitura dei servizi pubblici essenziali, che si tratti di pulire le strade o tenere in ordine giardini e verde urbano. L’economia del villaggio è quasi interamente basata sull’agricoltura, visto che il 70% dei cittadini lavora alla produzione dei pezzi forte del territorio andaluso: carciofi e peperoni. Qualcuno potrebbe storcere il naso, ma questi ortaggi finiscono anche sulle nostre tavole perché l’export è fiorente. Il restante 30% della popolazione lavora in piccoli negozietti e poi, naturalmente, nelle scuole e negli uffici.

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La giunta non riceve emolumenti, perché  l’attività amministrativa è considerata un servizio alla cittadinanza: di questi tempi è chiaramente un segnale accolto con grande interesse dalla stampa, anche se va detto che già nei nostri piccoli Comuni la retribuzione è puramente simbolica e spesso devoluta da sindaci ed assessori ai già magri bilanci falcidiati dai tagli.

In realtà, il segreto a Marinaleda è una virtuosa sinergia tra livelli amministrativi diversi: comune, governo andaluso e amministrazione centrale. Ciò consente di sperimentare un modello di redistribuzione assolutamente unico. La quota per pagare la mensa scolastica è di 12 euro al mese; la piscina comunale costa, per l’intera estate, solo 3 euro.

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Ma non è finita qui: ogni cittadino di Marinaleda ha la possibilità di pagare un affitto calmierato di 15 euro al mese per un appartamento di 90 metri quadri. Come? Il Comune gestisce il terreno, ne concede il permesso di edificabilità valutando la bontà del progetto e l’assegnatario contribuisce alla costruzione dell’edificio con il proprio lavoro. Chi lavora nell’agricoltura, indipendentemente dalla mansione svolta, guadagna 50 euro al giorno, anche qui al di là della qualità del raccolto e delle stagioni: la giornata lavorativa è di 6 ore e vige un perfetto egualitarismo. Ovviamente, la domanda che vi starete facendo è: bella storia, ma il modello è esportabile?

È chiaro che Marinaleda, infatti, per la sua stessa natura, rappresenti un caso estremo e difficilmente replicabile one to one. Nessuno è così naive da non intuire la complessità di una realtà che non può e non deve essere una rete di villaggi di bucolica tradizione. Eppure, alcuni elementi sono pieni di significato e di stimolo: innanzitutto un’evidenza, per quanto limitata a un piccolo paesino, della possibile applicazione di modelli di sviluppo diversi da quello tradizionale. La diseguaglianza è un problema economico che questa crisi ha dilatato (e dilaniato), mostrandone l’impatto e i costi in termini di crescita e sviluppo di un paese: c’è un bellissimo libro di Wilkinson e Pickett, “La misura dell’anima”, che presenta numerosi studi scientifici dedicati proprio all’effetto della disuguaglianza su reddito, benessere, salute e altre dimensioni del vivere felici.

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L’esempio di Marinaleda è chiaramente limitato a un piccolo contesto ma nulla vieta, in un paese come il nostro, con più di 8 mila comuni (molti dei quali di dimensioni assai ridotte) di tentare – là dove il sistema economico sia ancora imperniato sull’agricoltura – modelli amministrativi diversi, ispirati alla cooperazione e all’esaltazione dei beni relazionali. Perché il capitale non è soltanto quello tecnico per acquistare nuovi impianti ed innovare, ma è anche quello sociale, che non a caso interessa la letteratura economica da decenni. Ripensare l’economia a misura d’uomo e impostare in modo equilibrato il rapporto fra capitale e società rappresenta una sfida che – molto più a Nord dell’Andalusia – è stata accolta anche dall’Islanda qualche anno fa.

Un terreno di solide relazioni interpersonali è indispensabile alla fioritura e alla regolazione di un sistema dove il mercato – da demone ingiustamente considerato come la causa di ogni male – diventi e funzioni per quel che è: un modo molto efficace di regolare i rapporti tra economia e società.

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Luciano Canova

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2 Commenti

  • alessandro diana ha detto:

    Bello. Proprio bello. Spero che tanti copino e incollino…

  • maurizio p. ha detto:

    Uno spettacolo,meraviglioso un lasciapassare per i nostri figli e nipoti se solamente i nostri politici pensassero meno a loro ed ai loro amici e più ai problemi reali dei cittadini.