Sono circa 95.000 gli italiani che nel 2013 si sono trasferiti all’estero. Un’intera cittadina. L’immagine di successo che suscita il pensarsi in partenza per l’avventura in un paese straniero, non trova però riscontro nei dati. Non risulta ci siano 95.000 nuovi ricchi italiani nel mondo. E basta spulciare tra le associazioni di italiani all’estero e seguire le conversazioni di chi si è trasferito nei luoghi più disparati del mondo, dalla Norvegia al Texas, per avere conferma del fatto che la fortuna non li ha attesi tutti al di fuori dell’Italia e nemmeno la felicità. Molti di loro probabilmente stanno vivendo con un compagno incontrato sul posto, un qualsiasi lavoro, un cane, un’auto, un mutuo, in un mini locale in un’anonima cittadina o nella periferia di una grande città, dove i costi più al ribasso consentono loro una dignitosa realizzazione costruita all’estero anziché  in una cittadina italiana.

Il rimorso di non aver provato a cercare l’Eldorado, non lo volevano. E non lo avranno. E’ giusto. Il mondo è da vedere e da vivere. Il mito di un luogo e di un sogno è da inseguire e se non trovi un lavoro, spostarsi su altri mercati è un sacrosanto diritto. Ma è il pregiudizio al contrario che vogliamo stanare, quell’insidiosa insoddisfazione alimentata  dall’ennesimo conoscente che ha spiccato il volo altrove, lasciandoti sulla riva opposta come se – miracolosamente – dall’altra parte tutto fosse sempre meglio.

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Uscire dalla propria comfort zone non significa per forza cambiare nazione, può anche voler dire liberarsi da un pensiero distorto che ti vorrebbe fallito perché non sei emigrato in paese anglofono. Noi che siamo ancora qui, per mille motivi, per le contingenze del vivere o perché non c’è stato l’aggancio giusto o perché stiamo rivitalizzando le nostre imprese sul complicato filo dell’innovazione, non siamo gli scemi del villaggio globale. E non siamo nemmeno privati della possibilità di fare fortuna.

La comunicazione globale ci permette una lettura all’inverso: siamo collegati al mondo non solo se ce ne andiamo, ma anche se restiamo. Il mondo è globale anche da qui: questo è il bello. Possiamo scrivere un libro di successo in una mansarda in Trentino, sfruttare il made in Italy per lanciare il fashion da una rivista femminile italiana e farla diventare internazionale, creare un metodo educativo innovativo dalla biblioteca di un paesino siciliano, inventare un finger food strepitoso nei tre metri quadrati di una cucina nella periferia di Milano e con pochi click dirlo al mondo, creare consenso, farcela. Siamo globali anche noi che siamo rimasti nel nostro Paese, anche a noi la worldwide communications offre visibilità, opportunità, impatto sul sistema.

Mentre nella giungla competitiva degli States, tra cheeseburger e Powerball, qualcuno cerca una fortuna che non arriverà per potersi permettere  quindici giorni in un monolocale sul panorama di Roma, una ragazza vende panini all’ombra del Colosseo, muovendo i primi passi di un business che le ronza in testa. In Germania, qualcuno guadagna il doppio di noi ma non vede l’ora di lasciare il suo ordinatissimo Paese  per infilarsi sull’autostrada del Brennero col sogno di raggiungere il Garda dove un informatico ventenne fa vela e poi torna a casa a Bardolino a progettare una nuova app.

La fortuna ce la portiamo dietro, la fortuna siamo noi. Per qualcuno la fortuna è stata andarsene, per qualcuno sarà essere rimasto.

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Stefania Cornali

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2 Commenti

  • Claudio ha detto:

    Sono solo parole. Io sono rimasto in Italia e ogni progetto viene bloccato dalla burocrazia e dalle tasse. All’estero (scegliendo bene il luogo) non è cosi. Mi dispiace ma l’articolo racconta di una realtà che non esiste. La verità è che in Italia stanno chiudendo tutte le attività, e nessuno prova neanche ad aprirne una perché destinato al fallimento. Mi dispiace ma avete toppato articolo.

  • Claudio ha detto:

    @AngelaPirola
    Facile parlare essendo cresciuta in una generazione fortunata. Tutti i sapientoni 50-60enni di oggi vorrei vederli all’opera adesso se fossero 20-30enni.