La scorsa settimana l’agenzia di stampa statale della Cina ha annunciato che il Governo ha messo a disposizione oltre un miliardo e mezzo di dollari di incentivi per le città e le regioni che nel 2014 registreranno significativi progressi nella riduzione dell’inquinamento atmosferico. Ma forse non tutti sanno che se la politica ambientale della Cina sta migliorando, lo si deve al lavoro svolto da Ma Jun – giornalista, scrittore e ambientalista cinese che da anni denuncia il pesante inquinamento dell’aria e dei corsi d’acqua e che esorta i propri connazionali ad attivarsi in prima persona per far cambiare le cose.

Ma Jun ha elaborato una strategia vincente per far pressione sul governo e costringerlo a prendere provvedimenti seri a tutela dell’ambiente e della salute pubblica – cosa che nel 2012 gli ha fatto vincere anche il prestigioso “Goldman Environmental Prize”, meglio noto come il “Nobel per l’ambiente”. “Il maggiore ostacolo alla salvaguardia dell’ambiente in Cina non è la mancanza di denaro o di tecnologia”, ha spiegato alla stampa statunitense, “ma la mancanza di forti motivazioni. I cittadini devono essere informati in maniera completa ed esauriente. E solo quando conoscono il reale livello di inquinamento del territorio in cui vivono, allora si ribellano allo “staus quo” e si attivano in prima persona. Anche noi abbiamo leggi e norme ambientali, ma la loro applicazione è molto debole. In Cina, i poteri delle agenzie ambientali sono limitati dai poteri degli ufficiali locali, che privilegiano la crescita economica a scapito della tutela ambientale. Persino i tribunali hanno parecchi pregiudizi nei confronti del tema ambientale”.

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Ma Jun non si è demoralizzato e, per cambiare le cose, è partito “dal basso”: “Per avere un impatto positivo ed efficace, la chiave di tutto è l’informazione. La protesta fine a se stessa, senza informazioni adeguate e complete, tende a diventare confusione e non reale trasformazione”. Secondo il giornalista cinese, la vera chiave di volta del cambiamento sta nella trasparenza delle informazioni: se i cinesi sanno chi inquina e che cosa viene versato nei fiumi a discapito della loro salute, allora possono mettere costringere i produttori che inquinano a prendere provvedimenti seri ed agire in modo responsabile.

Per informare la popolazione della gravità del problema, nel 2006 Ma Jun ha fondato una piccola associazione no profit chiamata “IPE – Institute of Public and Environmental Affairs”, creando un database online di società cinesi e multinazionali sospettate di inquinare il territorio. Il database, molto intuitivo e facile da utilizzare, incrocia i documenti ufficiali sull’inquinamento pubblicati dal governo con le violazioni ambientali rilevate dai cittadini. Il database di IPE – che promuove la cittadinanza attiva e la trasparenza dei dati – contiene quasi 100.000 segnalazioni, mappe dell’inquinamento atmosferico e idrico in Cina e una “black list” di società nazionali e multinazionali che non rispettano la normativa ambientale.

Majun2Quando la lista nera di IPE è stata pubblicata online, le prime reazioni non sono arrivate dal Governo o dalle società cinesi, bensì dalle multinazionali. “Queste società possiedono marchi commerciali molto più grandi e conosciuti di quelli cinesi e sono più sensibili all’opinione pubblica”, ha sottolineato Ma Jun. “Ciò li rende molto più propensi ad investire denaro per migliorare i processi produttivi e cambiare la gestione dei rifiuti e fanno tutto ciò che è necessario per essere tolti da quella che, ormai, è considerata la “famigerata” lista IPE”. Alcune multinazionali l’hanno addirittura contattato, complimentandosi per il suo lavoro.

Le imprese cinesi, invece, sono rimaste indifferenti e, a quel punto, Ma Jun ha deciso di arrivare a loro in modo indiretto, cioè attraverso i clienti. Nel 2010, insieme ad una quarantina di organizzazioni non governative ha creato la “Green Choice Alliance” (GCA), una campagna indirizzata ai consumatori cinesi. Questo il messaggio: “controllate che i produttori rispettino l’ambiente e utilizzate il vostro potere d’acquisto per cambiare le cose”. La campagna ha avuto grande successo e 13 compagnie cinesi inserite nella lista nera IPE, hanno preso provvedimenti immediati, ristrutturando gli impianti produttivi e adeguandosi alla legge.

Al tempo stesso, la GCA ha fatto pressione sulle multinazionali, affinché si assicurino che i fornitori cinesi rispettino gli standard legali. “Questo è il tipo di pressione che funziona di più”, ha detto Ma Jun. “La maggior parte delle 570 società che erano inserite nella lista IPE è venuta da noi per chiederci se i piani di risanamento fossero adeguati, proprio per paura di perdere i contratti milionari con le multinazionali straniere. Per le società straniere che comprano in Cina, spesso tutto si riduce al prezzo. Costringono i produttori locali a ridurre i prezzi ricattandoli coi contratti di fornitura. Ma oggi sempre più multinazionali (colossi del calibro di General Electric, Nike, Vodafone, Coca-Cola, Apple e Sony) scelgono i loro fornitori solo dopo aver controllato la lista nera di IPE. E’ indubbiamente un grande risultato”, ha sottolineato Ma Jun, “anche se si tratta solo di 570 società su 60-70.000 produttori cinesi che regolarmente infrangono le eleggi ambientali”.

In realtà, è proprio grazie al lavoro di IPE e di GCA che in Cina le cose stanno cambiando: dopo l’eco internazionale dell’assegnazione del “Nobel per l’ambiente” a Ma Jun, il governo ha emanato una legge che obbliga le autorità locali a rendere trasparenti alla popolazione i dati sull’inquinamento, nel 2013 il Ministero della Protezione Ambientale ha imposto alla agenzie ambientali di sorvegliare mensilmente le emissioni di circa 15.000 aziende considerate altamente inquinanti (perché ritenute responsabili dell’80% dell’inquinamento del paese) e infine, pochi giorni, fa il governo cinese ha predisposto incentivi per le città virtuose.

“I nostri sforzi sono piccoli esperimenti, eppure funzionano”, ha concluso Ma Jun. “Siamo una piccola associazione con poche risorse. Non abbiamo la bacchetta magica per cambiare tutta la Cina, ma come punto di partenza, forse non siamo poi così male. E se ce l’abbiamo fatta noi, allora chiunque può farcela e non c’è alcun motivo per rassegnarsi al peggio e lasciar perdere”.

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Laura Pavesi

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