La polarizzazione delle opinioni  e lo “stress da informazione” sono sempre esistiti, soprattutto da quando ci sono i social, ma con la pandemia il fenomeno è aumentato. Come mai non riusciamo a confrontarci civilmente? Lo abbiamo chiesto allo psicoterapeuta Alessandro Ciardi.

Quali sono le ragioni, a livello psicologico e sociale, del fenomeno della “polarizzazione delle opinioni”?

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Quando una discussione si polarizza su posizioni inconciliabili si finisce per “impantanarsi”. Ognuno cerca di affermare la propria inconfutabile ragione: questo non porta mai molto lontano. In termini più semplici, c’è una riduzione della complessità e quindi anche del benessere.

Questo può accadere sia nel macro, come in una democrazia, ma anche a livello micro. Pensiamo a ciò che accade nel sistema nervoso: quando il cervello intercetta una minaccia, riduce la capacità di pensare in modo articolato e questo genera sofferenza.

Questo meccanismo impedisce al cervello di relazionarsi con la complessità, il baluardo principale della democrazia e della salute mentale. La pandemia ha fatto emergere questo problema: essere troppo sicuri delle proprie posizioni porta a “immunizzare” la vita, a semplificarla eccessivamente. Ciò ci rende incapaci di relazionarci con ciò che non capiamo e che è diverso da noi.

Pandemia e guerra sono esperienze traumatiche a cui il cervello reagisce mettendosi sulla difensiva. Quando percepiamo una minaccia ci chiudiamo in noi stessi, assumendo posizioni semplicistiche e riduttive.  Quando la nostra sicurezza è in pericolo non riusciamo a pensare in termini complessi: abbiamo bisogno di scorciatoie di pensiero.

Esiste un “lessico da guerra” che ci ha lasciato in eredità la pandemia e cosa comporta il suo utilizzo nel confronto con l’altro?

Il lessico da guerra imposta una cornice narrativa: qualunque cosa ci mettiamo dentro, rimanderà a quel contesto. È fondamentale diventare più consapevoli dei contenitori, delle narrazioni in cui siamo immersi e ricordare a noi stessi che la realtà coincide spesso col racconto che ne facciamo.

Il lessico da guerra è riduttivo, si presta solo ad approcci semplicistici e annulla la possibilità di visioni alternative.

Spesso, nelle discussioni particolarmente accese e polarizzate, riemerge un termine che era molto in voga diversi anni fa: “analfabeta funzionale”. Si tratta di un modo per silenziare l’altro o di una reale emergenza sociale?

L’analfabetismo funzionale è un fenomeno di cui effettivamente si parlava molto qualche anno fa. I dati italiani, peraltro, pongono il nostro Paese tra i peggiori d’Europa, da questo punto di vista. Questa emergenza è causata da una mancata “manutenzione” delle competenze. 

Leggiamo poco, pensiamo poco, siamo insofferenti a processi di pensiero ed emotivi che richiedano tempo, incluso l’accettare la frustrazione di non capire. Credo rappresenti una preoccupante tendenza a disimparare a maneggiare la complessità.

Sembra che a nessuno interessi più capire, ma solo avere ragione: che ruolo gioca l’informazione in questo?

Il ruolo dei giornalisti e dei media è fondamentale. Troppo spesso, per la mia esperienza di cittadino che desidera informarsi, più che di informazione parlerei di deformazione della realtà allo scopo di vendere una notizia o di arrivare per primi. L’informazione ha la grande responsabilità di tornare a un modello diverso di divulgazione, che incarni un approccio di curiosità e amore per la verità, nel rispetto della complessità, delle visioni alternative e dell’intelligenza del lettore. Bisogna tornare ad assumersi la responsabilità di ciò che si dice. Come diceva Sciascia, che cito a memoria, le parole non sono come i cani, cui puoi fischiare per farli tornare indietro.

Ci sono tecniche che si possono usare per portare un diverbio dal livello di scontro a quello di scambio civile o il confine è troppo netto e irreversibile?

Esistono tecniche di “raffreddamento” per il confronto verbale e non verbale (pensiamo ai social). Confrontarsi civilmente e sapere come recuperare la calma è fondamentale per trarre un significato da una discussione.

L’efficacia di queste tecniche si fonda sul principio a cui accennavamo prima. Quando ci sentiamo minacciati, il cervello si difende. Ciò può produrre effetti come l’attacco, la fuga o lo spegnimento: il sistema nervoso ci impedisce di ragionare ed esprimere le nostre ragioni.

Una persona che diventa aggressiva lo diventa, molto probabilmente, perché sta cercando di difendersi da una reale o presunta minaccia. È fondamentale non presentarsi con tonalità aggressive, per tornare a possibilità di dialogo.

A provocare stress e ansia non sono più solo le notizie in sé, ma come vengono date. Si può parlare di “stress comunicativo”? Come combatterlo?

Sono spesso le modalità che veicolano un’intenzione, più che i contenuti.
Si può parlare di stress comunicativo poiché i modi allarmistici con cui vengono date alcune informazioni sollecitano il sistema nervoso a ricorrere a una posizione difensiva in cui diventa molto più difficile avere accesso a risorse calmanti e alla possibilità di pensare e valutare soluzioni alternative.

Il nostro cervello non è diverso da quello dell’uomo del Neolitico, strutturato sulla presenza di minacce alla sopravvivenza. Abbiamo un cervello complesso che solo recentemente e solo in alcuni contesti ha avuto la possibilità di accedere a condizioni di maggiore sicurezza. Se le informazioni hanno una tonalità allarmante, attivano le nostre difese. In questo senso, chi dà le informazioni ha una grande responsabilità.

Come combattere lo stress comunicativo? Favorendo attività, situazioni e relazioni che ci facciano sentire al sicuro e più consapevoli di noi stessi. Aggiungerei anche che, così come esistono le diete detox per il corpo, anche la mente ha bisogno di selezionare ciò che “entra”: possiamo quindi iniziare a selezionare ciò con cui nutriamo la mente. È una nostra libertà fondamentale. Sempre.

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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