Le “cause verdi” sono la macroarea in cui confluiscono tutte le questioni e i progetti che perseguono la giustizia climatica per il nostro Pianeta e, di conseguenza, per tutte le popolazioni che lo abitano. Come abbiamo avuto modo di argomentare in chiave più analitica nel corso dell’inchiesta, il percorso di consapevolezza passa prima dalla comprensione da parte dell’opinione pubblica e poi dall’azione da parte delle associazioni benefiche. Cogliere l’interdipendenza tra la giustizia climatica e i vari livelli di ingiustizia è stato e continua a essere l’obiettivo più ambizioso dell’umanità e come tale è un processo lento e graduale, ma costante.

Vediamo alcuni esempi delle iniziative che rappresentano, fino a ora, il culmine dell’escalation positiva che sta vivendo il settore filantropico globale.

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Il più grande finanziamento privato per la biodiversità

Il 22 settembre scorso si è svolto il Transformative Action Nature and People, tra i più rilevanti appuntamenti mondiali in cui si sono riuniti capi di stato, ministri e leader della finanza, della filantropia ma anche della società civile e delle comunità indigene. Insomma, tutti gli attori che hanno la facoltà di contribuire concretamente alle cause verdi.

Nel corso di questo evento, è stato annunciato il più consistente impegno economico per l’ambiente da parte di finanziatori privati: cinque miliardi di dollari destinati nel corso dei prossimi 10 anni ai progetti che contrasteranno una delle tre crisi più pericolose per la vita del Pianeta: quella climatica, dell’estinzione e sanitaria. Le fautrici di questa azione epocale sono nove fondazioni filantropiche: Arcadia, Bezos Earth Fund, Bloomberg Philanthropies, Gordon and Betty Moore Foundation, Nia Tero, Rainforest Trust, Re:wild, Wyss Foundation, Rob and Melani Walton Foundation.

Per l’occasione, le associazioni benefiche coinvolte hanno lanciato la Protecting Our Planet Challenge, per raggiungere l’iniziativa 30×30 proposta dalla High Ambition Coalition (HAC) for Nature and People, composta da 70 nazioni. Infatti, l’Unione internazionale per la conservazione della natura – che comprende governi e oltre 1400 organizzazioni della società civile e dei popoli indigeni – ha incluso l’obiettivo 30×30 nel quadro post-2020 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica. Questo obiettivo punta a trasformare in aree protette il 30% della superficie terrestre e marina, entro il 2030.

Quanto alla maxi donazione invece, l’obiettivo è enfatizzare il ruolo di contrasto della natura stessa – attraverso soluzioni mirate che interessino terre, acque interne e mari – per garantire che il 30% del pianeta sia preservato, negli hub determinanti per la cause verdi, ricche di biodiversità.

Secondo le stime, questo consentirà di:

  • tutelare l’80% delle specie vegetali e animali
  • garantire il 60% degli stock di carbonio
  • ripristinare il 66% dell’acqua pulita

Cosa fare per le cause verdi

In Canada, sotto la guida degli indigeni, sorgeranno nuove aree protette nelle regioni di James Bay, Hudson Bay e Labrador Sea, dove ospitare balene beluga, orsi polari e trichechi. Le regioni più a rischio saranno quelle coinvolte dall’investimento maggiore, tra queste: Ande tropicali, il bacino del Congo e aree marine dell’Oceano pacifico. Inoltre, le 161 aree di ancoraggio identificate da African Parks, Ong che gestisce 15 aree protette (tra parchi e riserve naturali) in nove paesi africani.

Le soluzioni più accessibili ed economiche, secondo Wes Sechrest – CEO di Re:wild – risiedono nel ripristino delle foreste e delle zone umide, ritenuti dalla scienza i serbatoi di assorbimento del carbonio più efficaci sul Pianeta. A questo si dedica, su più fronti, la Wildfowl and Wetlands Trust per il ripristino di 100 mila ettari di zone umide; si stima infatti che un terzo di queste siano state distrutte nel mondo dal 1970. Il progetto in questione – Recovery blue – si concentra nel Somerset, un’area peculiare del sud ovest del Regno Unito e prevede quattro reti di “infrastrutture blu”:

  • benessere urbano, presso il fiume urbano Salt Hill Stream, a Slough, depredato e in stato di abbandono
  • stoccaggio del carbonio, nella riserva di Steart Marshes, ai margini dell’estuario del Severn, vicino a Bridgewater
  • trattamento delle acque, con il sistema South Finger ideato per la riserva di Slimbridge
  • protezione fluviale, nelle due valli circostanti ai torrenti Doniford e Monksilver.

All’interno del documento integrale scaricabile sono riportati più specificatamente dati, metodi di intervento e benefici di ognuno di questi casi studio “pilota”, tuttora in divenire. Questo modus operandi lo rende a tutti gli effetti un modello potenzialmente replicabile per le cause verdi, in qualunque area presenti peculiarità paesaggistiche simili o compatibili. Sul sito ufficiale inoltre sono consultabili ulteriori proposte – più o meno embrionali – di resilienza climatica.

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Roberta Nutricati

Roberta Nutricati

Laureata in Lettere Moderne a Siena e in Relazioni Internazionali a Torino. Dopo aver vissuto e lavorato in Spagna per un anno, ho conseguito un master in Europrogettazione e il riconoscimento alla Camera dei Deputati come Professionista Accreditata presso la Fondazione Italia-USA a Roma. Collaboro con il settimanale TheWise Magazine e scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare pubblicista.

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