È di questi giorni la notizia del ferimento di Jacob Blake da parte della polizia di Kenosha. Un avvenimento, l’ennesimo verso un cittadino afroamericano, che ha portato allo sciopero NBA con la minaccia di non completare la stagione in segno di protesta. Minaccia poi rientrata in funzione di alcuni risultati importanti ottenuti dai cestisti, i quali non sono stati gli unici atleti a reagire ai fatti del Wisconsin. Non tutti in USA hanno appoggiato questa manifestazione di protesta, anche all’interno della comunità afroamericana. Nel calcio nostrano, lo sport più praticato in Italia, questa tipologia di gesti rimangono rari: pochi casi isolati e minore clamore mediatico.

Cosa ha causato lo sciopero NBA?

Siamo a Kenosha, in Wisconsin, quando un 29enne afroamericano di nome Jacob Blake viene fermato dalla polizia. Secondo l’arma stava cercando di rubare le chiavi dell’auto di colui che ha chiamato la polizia e ha opposto resistenza all’arresto con un coltello in mano. Un testimone ha sentito i poliziotti intimargli di lasciare a terra il coltello ma sostiene di non aver visto armi nelle sua mani durante l’accaduto. Rimane il fatto che, mentre cercava di risalire nella sua macchina e con i suoi tre figli nel sedile posteriore, uno degli agenti ha aperto il fuoco e con sette colpi di pistola alla schiena ha provocato la sua paralisi dalla vita in giù. Dall’ospedale hanno fatto sapere che non c’è certezza che la paralisi sia momentanea: essa potrebbe anche essere definitiva.

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Immediate le reazioni in un Paese che da qualche mese è in fermento con il movimento Black Lives Matter, nato a seguito dell’uccisione di George Floyd per rivendicare l’equità sociale in USA. Indipendentemente dalla colpevolezza o meno di Blake in occasione dell’arresto, rischiamo di essere così davanti all’ennesimo caso di abuso di potere da parte della polizia americana contro un afroamericano. La reazione solidale di Tony Evers, Governatore del Wisconsin, non si è fatta attendere:

Mentre non abbiamo ancora tutti i dettagli, quello di cui siamo certi è che non è il primo afroamericano vittima di una sparatoria, ferito o ucciso senza pietà da individui delle forze di sicurezza nel nostro stato o nel nostro Paese. Siamo al fianco di quelli che hanno chiesto e continuano a chiedere giustizia, equità per le vite dei neri in questo Paese.

Tony Evers

Dalla notizia alla decisione di non scendere in campo

Nonostante l’emergenza coronavirus la NBA, ovvero il massimo campionato americano e mondiale di pallacanestro, ha deciso di completare la stagione nella cosiddetta “Bolla” di Orlando, senza pubblico e con tutte le squadre in quarantena fino alla fine della competizione. Già in occasione dell’uccisione di George Floyd e della nascita del movimento Black Lives Matter alcuni giocatori avevano espresso le loro perplessità sulla ripresa della stagione, cercando di spingere per uno sciopero NBA come messaggio al mondo intero. Il tutto con il Commissioner NBA, Adam Silver, che ha dimostrato vicinanza al movimento BLM e con gesti forti come quello di Michael Jordan, il quale ha stanziato di 100 milioni di dollari in dieci anni a «a varie organizzazioni di tutto il Paese che lottano per il raggiungimento dell’eguaglianza razziale, della giustizia sociale e per un accesso più ampio all’educazione».

Un’ipotesi, quella dello sciopero NBA, poi rientrata, pur con l’opinione pubblica spaccata: tra chi sosteneva l’idea dello sciopero idealisticamente considerando come un gesto forte, e chi criticava l’idea sostenendo che fosse assurdo che un “manager” fosse d’accordo con lo sciopero dei suoi “dipendenti”. Un’ipotesi rientrata, però, almeno fino alla notizia dell’aggressione a Jacob Blake. Lì la decisione dei Milwaukee Bucks, i quali hanno deciso di non scendere in campo per protesta nella sfida di Playoff in programma, dando il via ad una nottata senza precedenti.

Sciopero NBA

Fiserv Forum, arena dei Milwakee Bucks vuota per la protesta (© Twitter)

La lunga nottata dello sciopero NBA

La prima reazione è stata di irritazione da parte delle altre squadre, in quanto scelta individuale dei Bucks non concordata con il resto della lega. La seconda reazione è stata quella delle due squadre di Los Angeles, Lakers e Clippers, tra le più serie candidate per la vittoria finale ma decise a interrompere del tutto la competizione in segno di protesta. Tra i capifila del fronte losangelino LeBron James, giocatore più rappresentativo della lega nonché da anni attivo mediaticamente per questioni sociali, con il motto rappresentativo «bigger than basketball» coniato insieme a Nike.

Un fronte molto deciso, soprattutto nella persona delle stelle delle due squadre, ma che non è riuscito a coinvolgere la maggioranza schiacciante dei giocatori impegnati nella “Bolla”. Ne è seguita una nottata di trattative, con interventi anche di mostri sacri della pallacanestro quale Michael Jordan, nonché di un ex Presidente come Barack Obama, molto attivo pubblicamente sul tema delle discriminazioni razziali. Dopo quasi due giorni di trattative la scelta è stata quella di riprendere a giocare.

Una sconfitta o una vittoria?

Una volta resa pubblica la ripresa dei Playoff e quindi l’interruzione dello sciopero NBA l’opinione pubblica si è nuovamente spaccata, tra chi sosteneva che il messaggio fosse stato comunque forte e chiaro e chi sosteneva invece che avessero prevalso altri interessi vista l’enorme perdita economica a cui la lega sarebbe andata incontro. Indipendentemente dal giudizio che si ha sulla situazione venutasi a creare, i risultati ottenuti da giocatori sono stati di grande rilievo.

Sciopero NBA

LeBron James ed Anthony Davis, giocatori tra i più decisi a interrompere la stagione (© Twitter)

È stata garantita infatti la creazione di un fondo da 500 milioni di dollari da parte dei proprietari delle squadre da spendere per iniziative in favore delle fasce di popolazione più bisognose, anche afroamericane. Inoltre i giocatori hanno ottenuto la trasmissione di spot di promozione di diritti sociali durante la diretta delle partite, così come la promozione da parte delle squadre di iniziative cittadine di sensibilizzazione sociale. Inoltre, le arene delle squadre saranno messe gratuitamente a disposizione della comunità come ulteriori seggi elettorali per garantire a quante più persone possibili la possibilità di votare.

Reazioni allo sciopero NBA nel mondo

Quello dello sciopero NBA è stata una notizia che ha avuto un’immediata eco sia nel mondo della pallacanestro, sia in quello di altre discipline. Una sorta di reazione a catena che ha portato per esempio all’interruzione della Major League Soccer, il massimo campionato di calcio USA, così come al rinvio di tre sfide di Major League Baseball, con molti giocatori afroamericano impegnati in altre partite che hanno deciso di non scendere in campo.

Sempre nel mondo della palla a spicchi, ma in questo caso nel WNBA, la versione femminile della competizione, da alcune atlete delle Washington Mystics sono sono state indossate delle magliette simboliche con sette buchi per simboleggiare i sette proiettili che hanno paralizzato Jacob Blake. Infine Naomi Osaka, tennista giapponese e nera, ha deciso di non disputare la semifinale del WTA di Cincinnati in cui era impegnata, provocando il rinvio di tutte le gare. Nelle ore successive avrebbe poi deciso di disputare la sfida ma ha comunque deciso, come i giocatori NBA, di lanciare un messaggio all’opinione pubblica.

Osaka tennis

Naomi Osaka con una maglia del movimento Black Lives Matter (© Twitter)

Chi protestava e oggi ha opinioni discordanti

Nel 1972 il primo atleta in NBA a decidere di protestare contro le ingiustizie sociali nei confronti della popolazione afroamericana fu Charlie Yelverton, il quale decise di non alzarsi in occasione dell’inno, venendo poi cacciato dalla NBA. Il giocatore in seguito proseguì la sua carriera in Italia, a Varese, vincendo anche una Coppa dei Campioni e uno Scudetto. «I sette colpi di pistola alla schiena del povero Blake hanno risvegliato alcune coscienze», ha dichiarato l’ex giocatore di Portland in un’intervista a La Gazzetta dello Sport, «ma diffido di tutti coloro che, schierandosi con il Black Lives Matter predicano i diritti uguali per tutti». Sostiene che ci sia molta speculazione soprattutto da parte di «chi parla bene poi non fa nulla per risolvere conflitti e violenze», facendo l’esempio di «sindaci neri che non entrano nei ghetti delle loro città per evitare problemi, lasciando le cose come stanno». Una menzione particolare, inoltre, per Barack Obama:

Barack Obama, per esempio, non è mai stato nei ghetti di Chicago. Io la vedo come un’enorme campagna d’odio contro il presidente degli Stati Uniti.

Charlie Yelverton

Calcio e razzismo: giocatori che non sono stati silenti

In Italia il tema del razzismo negli stadi di calcio, lo sport più popolare, non è mai probabilmente stato affrontato in maniera concreta. Seppur non ci siano mai stati casi simili allo sciopero NBA, ci sono stati casi di giocatori che hanno minacciato di lasciare il campo in segno di protesta. Il caso più eclatante avvenne probabilmente nel 2005, quando l’ivoriano Marco André Zoro, durante la sfida tra il suo Messina e l’Inter, prese il pallone in mano e minacciò di abbandonare il campo, chiedendo all’arbitro di sospendere la gara. Dopo un’opera di convincimento da parte di alcuni giocatori dell’Inter Zoro decise di concludere la sfida, forte del sostegno di tutto lo stadio siciliano.

Zoro inter messina

Marco André Zoro mentre con il pallone in mano minaccia di uscire dal campo per protesta (© Twitter)

Più recentemente, nel 2013 fu il ghanese Kevin-Prince Boateng a reagire ad alcune urla, giudicate come ululati discriminatori, contro di lui e altri giocatori del Milan nella sfida amichevole contro la Pro Patria. Il giocatore prese il pallone in mano e lo calciò verso le tribune in segno di protesta.

Un gesto simile è stato compiuto da Mario Balotelli durante la sfida a Verona tra il suo Brescia e gli Scaligeri. Dopo ripetute urla da parte del pubblico il giocatore azzurro ha calciato il pallone verso la curva dei tifosi gialloblù minacciando di uscire dal campo. Una situazione che ha portato il giudice sportivo a chiudere per un turno il settore dello Stadio Bentegodi protagonista dell’accaduto.

Lo sport come veicolo di messaggi di equità

Dalla morte di George Floyd al ferimento di Jacob Blake, due avvenimenti che hanno portato lo sport a reagire nella direzione dell’equità sociale, in questo caso soprattutto della comunità afroamericana. Gesti clamorosi ed inediti come quello dello sciopero NBA, seppur non duraturi nel tempo, hanno portato a risultati sia simbolici sia concreti che rimarranno scolpiti nella storia dello sport. Resta solo da capire quando questi messaggi saranno captati e canalizzati dalla politica, per proseguire nel solco di equità tracciato da essi tracciato. Parafrasando uno degli slogan della Nike, in questi mesi lo sport sta dimostrando di essere «more than sport».

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Matteo Calautti

Matteo Calautti

Esterofilo e curioso osservatore di politica e attualità. Fondatore di Liguria a Spicchi e responsabile della comunicazione del Comitato Regionale Liguria di pallacanestro. Scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare pubblicista.

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