In Italia, le foreste avanzano ma questo non basta. Quando e come la riforestazione è davvero efficace?

Nel 2018 la rivista Nature l’ha inserito tra gli 11 scienziati emergenti nel mondo. Giorgio Vacchiano è ricercatore in scienze forestali presso l’Università Statale di Milano. Dopo la laurea a Torino, si è trasferito al centro di ricerca della Commissione Europea, dove ha consolidato la sua esperienza nel settore. Con lui, abbiamo quindi voluto esplorare il complesso tema della riforestazione, soprattutto alla luce del nuovo rapporto “Force of Nature” di Trillion Trees e WWF.

In che cosa consiste il suo lavoro di ricerca sulle foreste e quali sono gli obiettivi?

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Preservare le foreste è fondamentale. Il mio lavoro ha l’obiettivo di capire come si evolvono le foreste e i loro servizi, cioè i benefici che le foreste danno alla nostra società. Il ricercatore, quindi, prova a insegnare a un computer come funziona una foresta. Lo scopo è prevedere come questa si svilupperà e quali benefici darà, sulla base del clima che cambia e degli interventi dell’uomo. Il computer, inoltre, studia le conseguenze dopo un evento estremo (incendio, ondata di calore, siccità) e i tempi di ripresa delle foreste. Quest’ultimo aspetto è molto importante perché oggi gli eventi estremi sono sempre più frequenti.

Lei ha parlato di benefici delle foreste, potrebbe fare qualche esempio?

Con la crisi climatica e il Covid-19 si sta capendo un concetto fondamentale: non esiste una separazione tra uomo e natura. Infatti, gli ecosistemi che funzionano bene garantiscono la nostra sopravvivenza da più punti di vista. Innanzitutto, ci proteggono dal dissesto idrogeologico e assorbono la CO2 in eccesso prodotta da noi. Inoltre, forniscono legno, prodotti alimentari e purificano le acque. Questi benefici, però, non sono sempre garantiti. Le foreste oggi sono sotto pressione per diversi motivi: il clima cambia troppo rapidamente; l’uomo interviene su di loro eliminandole (deforestazione), alterandone la biodiversità e degradandole. Tutto questo è all’origine di zoonosi (malattie degli animali trasmissibili all’uomo) e pandemie. Ecco perché bisogna preservare le foreste.

Il rapporto “Force of nature” del WWF afferma che lasciar agire la natura sia il modo migliore per ripristinare le foreste. È d’accordo o è bene che l’uomo intervenga direttamente?

È impossibile dare una risposta univoca: bisogna considerare il tipo di clima, il suolo, il degrado e quello che si vuole ottenere. Una cosa non esclude l’altra. Sicuramente, è importante lasciare che le foreste auto-selezionino le specie più adatte e smettere di avere un impatto negativo. O anche assecondare la natura, accelerando i processi che ci si aspetta di vedere in quella zona. Sono tre le strategie da mettere in atto: proteggere le aree fragili; ripristinare le zone degradate; gestire in modo virtuoso il bosco esistente. In particolare, migliorare le sue funzioni e preservare le foreste dagli eventi estremi. Questi interventi sul territorio sono alla base della pianificazione forestale. Un suolo degradato rende molto difficile gli interventi e la deforestazione è tra le principali cause del degrado del suolo. Negli ultimi 20 anni, infatti, abbiamo perso 120 milioni di foreste primarie.

Perché la deforestazione crea degrado del suolo, cioè desertificazione?

La deforestazione ha delle conseguenze su tutto l’ecosistema perché si interrompono equilibri molto delicati, sia con il suolo che con l’acqua. Nelle foreste tropicali, ad esempio, il suolo è molto antico e quindi povero di nutrimento. La crescita degli alberi, infatti, dipende solo dal riciclo delle foglie che cadendo si trasformano in concime per il suolo. Se abbattiamo gli alberi il suolo non sarà mai fertile, perché si interrompe il ciclo di rigenerazione. Dopo qualche anno il campo coltivato cesserà di produrre e dovremo spostarlo altrove. Riguardo all’acqua, invece, il problema si pone nelle zone tropicali. Qui esistono solo due stagioni, quella secca senza piogge e quella umida. Nella prima, gli alberi si procurano l’acqua da soli: l’acqua delle foglie evapora e si condensa in nuvole che portano pioggia. Eliminare gli alberi, quindi, significa eliminare la causa della pioggia che mantiene in piedi tutto l’ecosistema.

Nel mondo quali sono i luoghi più fragili da dover preservare?

L’Amazzonia, sicuramente. La deforestazione lì è pari al 17% e se dovesse superare il 25%, si rischia di varcare la soglia di non ritorno. Poi abbiamo il permafrost dell’area artica, ossia uno strato gelato di varie decine di metri che intrappola materia organica. È questa la più grande riserva di carbonio del pianeta. Se il suolo artico si surriscalda, enormi quantità di carbonio potrebbero riversarsi nell’atmosfera. Infine, mi piacerebbe soffermarmi su un tipo di foresta da preservare poco conosciuta, quella delle mangrovie ai tropici. Le mangrovie sono un vero gioiello perché, al limite tra la terraferma e l’oceano, riescono ad affondare le radici nell’acqua salata. Queste piante dall’ecosistema unico proteggono le comunità locali dalle onde degli oceani e preservano le coste. Gli allevamenti di gamberi, l’estrazione di idrocarburi e l’urbanizzazione stanno portando le mangrovie a estinguersi.

Piantare alberi è sempre un bene?

Dipende. Bisogna pianificare e studiare le relazioni tra tutte le componenti dell’ecosistema.  Per operare in modo sostenibile bisogna capire quale legno utilizzare e come cresce, quali funzioni deve svolgere, come si relaziona con il suolo, con l’acqua e con le persone. Altrimenti, nel migliore dei casi l’intervento è inutile, nel peggiore è dannoso. Per esempio, nelle campagne di riforestazione in Cina dal 1978 l’obiettivo era bloccare l’avanzata del deserto del Gobi. Hanno piantato solo pioppi, ignorando del tutto le dinamiche ecologiche. Non diversificare ha avuto due conseguenze negative. Primo, il dilagare del tarlo asiatico che uccide l’80% dei pioppi piantati; secondo, il pioppo richiede molta acqua e, poiché piantato su suoli già aridi, ha prosciugato la falda. La Cina, quindi, ha vanificato gli investimenti e ha peggiorato le cose. Infatti, la portata del Fiume Giallo si è ridotta di quasi il 50% negli ultimi 30 anni.

C’è deforestazione in Italia?

“Deforestazione” significa eliminare una foresta e sostituirla con un campo coltivato, un pascolo, una zona urbanizzata, un parcheggio o un supermercato. In Italia non c’è quasi deforestazione. Anzi, le foreste in Italia si espandono spontaneamente di 50-60 mila ettari ogni anno. Solo dai 5 ai 6 mila ettari ogni anno sono deforestati per la creazione di zone urbanizzate. Il problema da noi riguarda il consumo del suolo agricolo. Da un lato il bosco lo riconquista; dall’altro, le strutture urbane lo consumano al ritmo di 2 metri quadri al secondo. Se quindi la foresta in Italia aumenta, ha senso piantare alberi? Certo. Gli alberi mancano nelle zone urbane di pianura, là dove sarebbero fondamentali. Gli alberi rinfrescano le città, assorbono le piogge intense e parte delle polveri sottili. Bisogna quindi piantare gli alberi là dove servono, utilizzare le specie giuste nei posti giusti affinché esprimano al massimo i loro benefici.

Potremmo dire che l’Italia è in parte responsabile del fenomeno di deforestazione nel mondo?

Sì. L’Italia importa, acquista e consuma beni prodotti dalla deforestazione. Per esempio, l’olio di palma, la carne allevata in Sud America e la soia per l’alimentazione animale. Infatti, i campi di soia sono la principale causa di deforestazione. In un mondo globalizzato come il nostro non bisogna guardare solo i confini nazionali. L’Italia sta semplicemente delocalizzando il proprio impatto. Attenzione, però: per risolvere il problema della deforestazione non basta piantare alberi laddove questi mancano. Anche se piantassimo alberi ovunque fosse possibile, cattureremmo solo il 20% delle emissioni di CO2. Dobbiamo infatti cambiare il modo in cui produciamo energia, ci spostiamo e consumiamo. Solo così contribuiremo a preservare le foreste.

Esistono progetti attivi di riforestazione in Italia?

Gliene cito due, ai quali partecipo. Il primo è la fondazione alberi Italia lanciata a marzo 2021. Il progetto vorrebbe piantare 60 milioni di alberi in Italia, quindi uno per cittadino. Piantare gli alberi, però, non basta e infatti l’iniziativa si occupa anche della manutenzione. Un ecosistema artificiale è più fragile di uno naturale e nei primi anni è molto a rischio. Proprio per questo abbiamo un codice etico su come piantare bene gli alberi, dove farlo e che specie scegliere. Un secondo progetto è Life Co2, finanziato dai fondi europei per la conservazione della natura. Il progetto riguarda le foreste gestite, ossia foreste per ricavare legno. In Italia sono coinvolte tre zone: le foreste friulane, quelle romagnole di Forlì e le foreste dell’Appennino parmense. Si vuole capire come aumentare il sequestro di CO2 da parte del legno ricavato da queste foreste, quello che per esempio arreda le nostre case.

Come possiamo orientarci se vogliamo sostenere un progetto di riforestazione?

Preservare le foreste è molto complesso. Prima di tutto, è importante che i progetti indichino i criteri con cui operano. L’utente deve poter capire la credibilità e la correttezza scientifica ed ecologica di un progetto di questo tipo. Esiste, infatti, un codice europeo sulla comunicazione ambientale ingannevole. Inoltre, bisogna accertarsi che il progetto si occupi della manutenzione degli alberi. Ci deve anche essere un monitoraggio credibile di quello che succede, con fotografie o report. Ovviamente, più sono lontane le sedi del progetto, più è difficile controllare che venga fatto bene, anche rispettando le popolazioni indigene. Si tratta di una vera e propria giungla e occorre orientarsi con consapevolezza.

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Francesca Iaquinto

Francesca Iaquinto

Laureata in Lettere Moderne alla Statale di Milano, è stata studentessa di merito presso il Collegio di Milano per 5 anni. Nel dicembre 2019 ha vinto una Borsa di Studio per la scrittura della tesi presso la Duke University (North Carolina). Attualmente è docente di scuola secondaria, proofreader e scrive per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo costruttivo per diventare pubblicista.

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