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Quei benefattori anonimi che ci fanno sentire meglio

«A volte le persone più generose desiderano rimanere nell’ombra, ma noi vogliamo pubblicamente ringraziare il misterioso benefattore. Troviamolo, perché la solidarietà va riconosciuta e… conosciuta». Una pennellata di auspicata gratitudine.

È l’appello lanciato via Facebook della cooperativa «Cambi d’arte» di San Pietro in Casale, in provincia di Bologna, per mettersi sulle tracce dell’eroe mascherato che ha saldato il conto – furtivamente e frettolosamente – di un pranzo di 20 ragazzi disabili incrociati casualmente in un ristorante nel Parco del Delta del Po. «Ci siano alzati, siamo andati alla cassa e ci hanno detto che tutto era saldato» – spiegano i responsabili del gruppo – «Non ci siamo accorti di nulla, ci è stato solo detto che uomo era arrivato, ci aveva guardato durante il pasto e aveva chiesto di poter pagare il conto. Senza dire nulla, senza lasciare il proprio nome, senza dire il perché». Un sassolino nel mare dell’indifferenza; un fatto straordinario, un colpo di fortuna, un abbraccio metaforico per esprimere affetto e vicinanza.

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Tutto vero. Ma anche tutto non così fuori dall’ordinario. Basta cliccare «Benefattore anonimo» su Google o sbirciare tra gli archivi della cronaca ed ecco apparire l’Italia che non ti aspetti. C’è il «senza nome» che ha donato cento mila euro per restaurare l’antico istituto San Luigi ad Albizzate (Va), c’è la famiglia di Varzo che lontano dai riflettori ha staccato l’assegno per il restauro degli affreschi di Fermo Stella da Caravaggio, c’è chi – a condizione che non fosse pubblicizzata la cosa – ha messo soldi per salvare il basket femminile a Sesto San Giovanni o chi, a Brugherio, mantenendo ignota l’identità si è preso in carico le spese di un funerale di un uomo la cui famiglia non aveva risorse.

Piccoli tasselli di un puzzle infinito, esempi come mille altri. Un racconto a bassa voce di Paese che sa essere solidale. Di uomini e donne capaci di cogliere la sofferenza, le difficoltà, ma che non si fermano a guardare. Vanno oltre. Con azioni reali, concrete, efficaci. In cambio di nulla. Uomini e donne che non sono sponsor di nessuno, che non cercano visibilità, che non ostentano. Uomini e donne che preferiscono la discrezione all’ostentazione, seminatori di piccole gioie il cui raccolto sta nell’azione stessa. Benefattori anonimi. Per scelta, per timidezza, per eleganza, per timore, per senso di colpa o per i motivi psicologici più variegati.

E che forse diventa anche inutile tentare di andare a ricercare. Persone che nel dono ritrovano qualcosa di loro. Persone che sentono il bisogno, la necessità, di andare incontro all’altro senza per forza essere «qualcuno» per l’altro. Persone che – a volte programmando, a volte seguendo l’istinto – sentono l’urgenza di restituire alla comunità qualcosa di sé. Per sentirsi meglio e per far sentire meglio. Ed è un silenzio rumoroso. Festoso. Contagioso. Un silenzio che incide. Che lascia un segno. Un silenzio che cancella retorica e buonismo, che ci fa fare un po’ pace con il mondo. E, forse, ci fa sentire un po’ meno anonimi.

Articolo di Federico Taddia
tratto da La Stampa del 15 aprile 2018
licenza CC BY NC ND (alcuni diritti riservati)

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