Guerre e cambiamenti climatici sono macro tematiche che vengono spesso affrontate dalla stampa come due problemi distinti. Eppure non è così. Se iniziassimo a pensare al mondo in cui viviamo come a un ecosistema in cui tutto – ma davvero tutto – è connesso, questa forma mentis potrebbe aiutarci a cambiare prospettiva e, bussola alla mano, a ragionare su un campo di soluzioni molto più ampio di quello che consideriamo attualmente.

E’da questi presupposti che parte la nostra inchiesta: un’analisi che parla dell’impatto delle guerre sui cambiamenti climatici e dei cambiamenti climatici sui conflitti, dando voce a una fitta trama di interconnessioni. Connessioni che generano il problema ma anche connessioni che aprono la porta alle soluzioni.

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Che il cambiamento climatico – tra le altre cose – dia fuoco alla miccia di nuove guerre è cosa ormai assodata. Almeno per ora, possiamo parlare di “rifugiati climatici” solo in senso lato: la definizione, infatti, non è ancora contemplata dalla Convenzione di Ginevra e l’UNHCR preferisce parlare di “persone sfollate nel contesto di disastri e cambiamenti climatici. Senza stare a cercare il pelo nell’uovo, una cosa – quindi – è certa: le implicazioni della crisi climatica generano conflitti. Per di più, come sostiene la stessa UNHCR “le regioni in via di sviluppo, che sono tra le più vulnerabili dal punto di vista climatico, ospitano l’84% dei rifugiati del mondo. Gli eventi meteorologici estremi e i pericoli in queste regioni che ospitano i rifugiati stanno sconvolgendo la loro vita, esacerbando i loro bisogni umanitari e perfino costringendoli a fuggire di nuovo.

Il risultato? Una bella polveriera, che sta già iniziando a esplodere. Ce lo dicono i dati: solo nel 2022, il numero degli sfollati per cause ambientali ha raggiunto i 23,7 milioni.

Il climate change genera guerre, qundi. In questa tragica equazione, però, causa ed effetto sono termini che possono essere invertiti perché le guerre, a loro volta, hanno un impatto enorme sui cambiamenti climatici. Per le emissioni che provoca il dispiegamento di mezzi militari (se l’esercito degli USA fosse una nazione, il suo consumo di idrocarburi sarebbe uguale a quello dell’intera Finlandia). Per l’impatto delle operazioni militari sugli ecosistemi, con distruzione di foreste, avvelenamento delle acque, devastazione di interi habitat. Per il costo ambientale della ricostruzione, a guerra finita: per ricostruire le infrastrutture distrutte, l’Ucraina ha calcolato che serviranno circa cinquanta tonnellate di anidride carbonica. E questo è solo un esempio con una cifra, peraltro, destinata ad aumentare.

Se il problema è così ampio, in che direzione vanno cercate le sue soluzioni? Ne abbiamo parlato nella nostra inchiesta, che amplieremo ulteriormente nei prossimi mesi. In un’intervista a Raffaele Crocco, direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti, abbiamo parlato di “disarmo climatico”: una risposta che non vuole essere l’ennesima utopia pacifista ma uno schema d’azione concreto che implica una costruzione di sinergie e di politiche in grado di tradurle in realtà.

Nella costruzione di queste sinergie – dove, dal mio punto di vista, la spinta dovrà giocoforza venire dal basso – credo che anche i media potranno svolgere un ruolo di primo piano aiutando i lettori a capire il nocciolo del problema, evitando di soffiare sul fuoco quando gli Stati democratici mettono in campo risposte che implicano la militarizzazione del conflitto, e orientandosi verso un nuovo tipo di giornalismo di guerra. Quello che – paradossalmente, ma non troppo – si chiama “giornalismo di pace” e che già esiste. Ne parleremo in una delle nostre prossime inchieste.

Tutti gli articoli dell’inchiesta

Guerre e ambiente: due fattori che si influenzano reciprocamente

Spese militari: quanto si spende per le armi nei diversi Paesi?

Il disarmo climatico: un’utopia reale

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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