Dai narcisi sudafricani si potrebbe ricavare un componente vegetale per curare la depressione e altre malattie del cervello: questa la recente scoperta di un gruppo di scienziati dell’Università di Copenaghen. Questi fiori conterrebbero, infatti, un componente in grado di “dialogare” con le barriere del nostro cervello, rendendo così attivo il farmaco. 

Le qualità di questi componenti vegetali erano già note ai ricercatori danesi: precedenti studi avevano identificato in specie sudafricane come il Crinum e il Cyrtanthus, fiori simili ai bucaneve e ai narcisi,  proprietà che avevano effetto sui meccanismi del cervello coinvolti nella depressione. Questa ricerca ha dato ora nuovi risultati grazie all’ulteriore analisi di questi narcisi proveniente dall’Africa. Un loro componente sarebbe infatti in grado di dialogare con la barriera emato-encefalica, la vera e propria sfida che attende chi sviluppa nuovi farmaci.

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“La sfida più grande nel trattamento medico delle malattie al cervello” dichiara infatti Birgen Brodin, docente alla Facoltà di Scienze Mediche e sanitarie dell’Università di Copenaghen è che i farmaci non possono passare attraverso questa barriera.

I vasi sanguigni, spiega Brodin, sono infatti impenetrabili per la maggior parte dei composti farmaceutici, che vengono rigettati dalle cellule altrettanto velocemente di come si tenta introdurli. Il tutto per difendere il cervello dall’ingresso di sostanze estranee. “E’ quindi di grande interesse” continua il docente “trovare composti che riescono ad “ingannare” questa linea di difesa”.

Proprio questa caratteristica sembra appartenere al narciso sudafricano. I risultati sono promettenti ma il lavoro che attende lo sviluppo di nuovi farmaci, ribadisce con forza Brodin, sarà però lungo e basato sulla stretta collaborazione i diversi rami dei ricercatori coinvolti, biologi e chimici, che stanno lavorando insieme al progetto.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Pharmacy and Pharmacology.

 

Nell’immagine: un narciso sudafricano, simile a quello studiato dai ricercatori danesi (ph. Gary I. Stafford)

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