La letteratura è sempre stata uno strumento da contrapporre alla guerra: la prima si occupa dell’individuo, ponendolo al centro del discorso mentre la seconda lo de-umanizza, privandolo del proprio volto. Tuttavia, oggi, dobbiamo chiederci se la letteratura ha avuto e potrà avere una funzione di pacifica mediazione.

Il conflitto tra Israele e Hamas ha messo in evidenza una distanza culturale che si pone in una prospettiva di chiusura totale nei confronti dell’altro, del vicino. Si rischia così di dimenticare che la società israeliana e quella palestinese per decenni si sono battute attraverso i libri per le loro idee e la loro rispettiva volontà di esistere. La letteratura, infatti, valorizzando le sfumature, ci rende comunità e ci avvicina nella diversità.

La letteratura israeliana come strumento di integrazione

Uno dei più importanti scrittori israeliani ad aver valorizzato la letteratura come strumento di pace fu Abraham Yehoshua. Nel corso della sua vita si spese fino all’ultimo per la soluzione dei due Stati, riconoscendo piena legittimità al popolo palestinese.

I suoi scritti sono prevalentemente romanzi, ma possiamo ravvisare alcuni saggi di grande interesse, tra i quali spicca “Elogio della normalità. Saggi sulla diaspora e Israele” in cui l’autore mise al centro la riflessione collettiva sui grandi eventi che hanno segnato la storia di un popolo, per riaffermare una propria identità collettiva nel segno dell’accordo.

Nella sua attività di intellettuale, Yehoshua si è battuto per la distinzione tra i diversi significati dei termini ebreo, israeliano e sionista, che, come lui stesso sovente affermava, erano “concetti da precisare” e da non trattare come sinonimi.
La sua attività romanzesca ha invece contribuito all’avvicinamento del popolo arabo con quello israeliano: nel romanzo “L’amante” convivono protagonisti arabi e israeliani nella cornice della guerra del 1973.

Ne “Il tunnel”, invece, la vicenda lega i due popoli in un unico destino, senza barriere e distinzioni. Yehoshua ha sempre sostenuto la pace e la dignità umana, sbeffeggiando il potere, reo di essere il vero colpevole di tutto quest’odio. In “Contro il fanatismo” di Amos Oz, invece, si analizza meticolosamente l’aspetto della radicalizzazione che contraddistingue la guerra in Medioriente. Il saggio è uno scritto denso di considerazioni imperiture, in cui viene esposta la tesi del fanatismo come male primordiale dell’uomo. Un male che viene prima di qualsiasi stato, sistema politico o governo e che finisce per avvelenare democrazie e religioni.

La letteratura palestinese come strumento pacifico di difesa

Nella narrativa palestinese ci sono tre tipi di autori: quelli che appartengono alla diaspora del 1948, quelli che furono integrati nella società israeliana, come il deputato del partito comunista alla Knesset Emil Habibi, e infine quelli rimasti nelle loro terre a Gaza e in West Bank.

Tra gli scrittori che sono rimasti nei “Territori Occupati”, e che hanno fatto prevalere la letteratura, come strumento di unione, sull’odio, spicca per importanza Sahar Khalifa. Nata sotto il mandato britannico, decide di occuparsi delle istanze femministe nella società palestinese, pubblicando nel 2008 il romanzo “La svergognata” e fondando a Nablus, e in altre città palestinesi (tra cui Gaza City) e giordane, il Centro per gli affari delle donne.

Susan Abulhawa è, invece, una scrittrice americana di origini palestinesi che con “Una mattina a Jenin” ha commosso i lettori raccontando le vicissitudini di una famiglia costretta alla fuga continua dal 1948 in poi. Un libro che non cerca colpevoli, soffermandosi sulla disperazione come motore portante dell’esistenza di un popolo. Così come “Nel blu tra il cielo e il mare” in cui l’autrice analizza le sofferenze derivanti dalla Nakba e le conseguenze non viste e raccontante fino in fondo della guerra, come gli stupri di cui è vittima Nazmiyeh, una delle protagoniste.

La cultura può sconfiggere l’orgoglio bellico?

Il filosofo Bertrand Russell, nel suo “Perché gli uomini fanno la guerra”, era arrivato alla conclusione che la causa dei conflitti risiedesse proprio in un sentimento umano: l’orgoglio. La paura di perdere e di sentirsi sconfitti era il male che generava altro male. Il filosofo britannico sottolineava come l’aspetto più rilevante di questo sentimento era proprio la sua strutturale soggettività.

La letteratura israeliana e palestinese lavora proprio per smussare questa caratteristica: uscire dall’atomizzazione della quotidianità per creare un immaginario collettivo. Come in “Apeirogon” di McCann, in cui due padri, uno palestinese e l’altro israeliano, perdono le rispettive figlie per via di una violenza insensata. Nel lutto comune essi diventeranno amici e decideranno di battersi per la pace.

Per un futuro di pacifica co-abitazione, con la prospettiva storica di due popoli e due Stati, abbiamo bisogno della cultura: uno strumento attivo per il nostro instabile presente. Come scriveva David Grossman:” La letteratura è uno strumento meraviglioso per recuperare il lato umano di cui il conflitto ci ha privati“.

Condividi su:
Avatar photo

Simone Libutti

Riscopri anche tu il piacere di informarti!

Il tuo supporto aiuta a proteggere la nostra indipendenza consentendoci di continuare a fare un giornalismo di qualità aperto a tutti.

Sostienici