Jamie OliverImogen Fox vice fashion editor del “The Guardian” nell’aprile del 2011 sosteneva la tesi secondo cui, girando per le affollate strade di Londra, fosse diventato più facile imbattersi nel logo Superdry che nei “rats” da secoli impossessatisi di vie e sotterranei del capoluogo britannico.
Ed in effetti, a quasi un anno da questa bizzarra affermazione, basta guardarsi bene in giro per comprendere la portata di questa nuova epidemia fashion.
Milano. Ore otto del mattino di un normale giorno feriale. Seduta in un tram – foglio di carta quadrettato e matita alla mano- mi guardo attorno, animata da uno scientifico interesse verso quello che definisco un nuovo fenomeno antropologico.
Sono alla ricerca di conferme: quanto Superdry c’è in Italia?
Non passa molto tempo prima di trovare una risposta al mio quesito. Il primo logo lo scorgo sotto la giacca di un giovane uomo dall’aria compostamente creativa: tipica della categoria grafic designer, architetto frugale. E’ un bel tipo, indossa una  
superdry lumberjack, la camicia a motivo scozzese (letteralmente “da taglialegna”) diventata super-popolare grazie allo chef inglese più italiano d’Europa, Jamie Oliver che, sempre più spesso nelle sue apparizioni televisive affetta, monda, salta e frigge indossandone una (perfettamente a proprio agio).
E’ poi la volta di un gruppo di adolescenti tra i quali spuntano felpe zippate, zaini, giacconi, denim e accessori rigorosamente Superdry. Riconosco il logo dal tratto che lo caratterizza: un simil ideogramma giapponese (sinceramente non ho ancora capito se abbia o meno un reale significato) misto ad una grafica prettamente numerica molto squadrata e dal forte richiamo Old America. Lo stile è sportivo ma conserva un tocco di urbanità e una particolare cura dei tessuti (davvero notevoli e raramente misti) e ha tagli molto essenziali, elegantemente rievocativi della cultura nipponica.
Mi ci vuole meno di una settimana di “ricerca sul campo” (scrupolosamente condotta durante specifiche fasce orarie ed in luoghi strategici della movida locale) per capire quanto anche l’Italia sia stata colpita dal ciclone Superdry.
Metropolitane, tram, bus, università e ovviamente locali notturni sono letteralmente invasi da questo brand “made in UK” dietro il cui successo si cela la storia di James Holder, un giovane designer e imprenditore di Studly, Inghilterra, classe 1971.
Partito 21 anni anni fa (era il 1992) con la vendita di T-shirt dal bagagliaio della macchina di sua madre, diventa presto un punto di riconoscimento per la comunità di skaters britannici e non solo .
21 anni dopo, il graphic-designer del countryside inglese è a capo, insieme al socio Julia Dunkerton di un impero da 139.000.000 di sterline l’anno, lanciato nel marzo del 2012 in borsa.
E sbaglia chi pensa che un successo planetario di questo tipo rischi di viziare la bontà del prodotto.
Secondo fonti attendibili del mondo della moda internazionale, la fortuna di questo brand sarebbe proprio nell’attenzione prestata dai suoi ideatori nel trovare la milgior sintesi tra design, confort e tessuti, senza ovviamente eccedere nel prezzo. Altro ingrediente fondamentale di questo nuovo successo made in UK.

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