Guerra e ambiente sono due fenomeni interconnessi: le conseguenze dei cambiamenti climatici possono portare all’insorgere di tensioni e conflitti, che stravolgono la vita di intere comunità. Allo stesso tempo, il settore militare è responsabile dell’emissione di grandi quantità di gas ad effetto serra, della devastazione di habitat ed ecosistemi e della diffusione di sostanze pericolose per la salute umana. Numerosi movimenti, numerosi individui chiedono che gli Stati facciano qualcosa di concreto per favorire il disarmo e per limitare l’impatto dell’ambiente militare sul pianeta. Ne parliamo con Raffaele Crocco, direttore di Unimondo, dell’Atlante delle Guerre dei Conflitti, e autore del libro “La nuova chiamata alle armi”.

Raffaele Crocco, lei è direttore dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti. Come avete cominciato a interessarvi della questione “disarmo climatico”?

“Siamo entrati in contatto con la questione del disarmo climatico intorno al 2011. A quel tempo, avevamo intuito che esisteva una forte relazione tra l’aumento dei conflitti e il cambiamento climatico. Ma non solo. Molte potenze, ancora oggi, sentono la necessità di controllare, direttamente o indirettamente, un numero sempre maggiore di territori per difendersi dalle conseguenze del cambiamento climatico, vedendo questi luoghi come delle riserve d’acqua, di cibo e di “smistamento” di persone.

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Abbiamo quindi cominciato a lavorare per fare informazione su questo fenomeno e per sottolineare come le soluzioni degli Stati ai cambiamenti climatici, anche quelle degli Stati democratici, non fossero soluzioni concrete e coordinate, ma che anzi, spesso implicassero la militarizzazione del problema. Da un lato, gli Stati cercano di controllare armi in mano i territori ricchi di risorse, necessari per quando queste verranno a mancare. Dall’altro rispondono militarmente all’aumento della pressione demografica e migratoria. Questo aumenta il rischio di conflitti e alimenta la corsa agli armamenti.

Ma quindi che relazione c’è tra il settore militare e il cambiamento climatico?

“Da una parte le conseguenze dei cambiamenti climatici portano all’inasprimento delle tensioni economiche, sociali e politiche, favorendo l’insorgere di conflitti. Dall’altra il settore militare, con le sue emissioni, con le sue scorie e con le sue bombe ha un grave impatto sull’ambiente.

Le faccio un esempio. L’esercito statunitense consuma, per le sue normali attività, l’equivalente degli idrocarburi impiegati da tutta la Finlandia.

I consumi e le emissioni sono altissimi e in caso di guerra, le armi e le bombe che cadono a terra inquinano il suolo e le falde acquifere. È probabile che l’Ucraina ci metta anni prima di tornare ad essere coltivabile.

La cosa fondamentale da sottolineare, però, è che mancano dati certi per misurare l’impatto ambientale del settore militare. Le forze militari sono esentate dall’obbligo di rendere conto delle loro emissioni, cosa che rende difficile stabilire quanto inquinino.”

A livello politico si sta muovendo qualcosa per cambiare questo paradigma? C’è qualcuno che chiede agli Stati che rendano conto delle proprie emissioni e che li spinge a ridurre l’impatto del settore militare sull’ambiente?

“A livello politico, non ci sono organizzazioni partitiche che si occupano direttamente di questo tema, anzi. Il disarmo rimane un aspetto praticamente trascurato. Le forze armate, anche nelle democrazie europee, sono esentate dai principi, dai doveri della democrazia e della trasparenza. Agiscono secondo gli interessi del Paese, non necessariamente della Democrazia.
Tuttavia, a livello di base, ci sono alcuni movimenti che stanno cercando di affrontare la questione, sia in Italia che all’estero. Dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, alla coalizione Europe 4 Peace.”

Secondo lei è possibile fare qualcosa di concreto?

“La possibilità di fare qualcosa di concreto c’è, ma richiede la creazione di una maggiore coscienza individuale e di strumenti efficaci di formazione e informazione per i cittadini. A questo proposito riadatto una frase di Chico Mendes (sindacalista e ambientalista brasiliano nda): “Parlare di ecologia senza parlare di lotta di classe è come parlare di giardinaggio”.

Non possiamo parlare di ambiente se non lo leghiamo in modo rigoroso all’idea di diritti umani, di giustizia sociale, di Pace. Ma Pace intesa non come un concetto utopistico, ma come uno strumento per costruire un mondo in cui vivere meglio. 

A me, però, viene in mente il concetto di deterrenza, ossia la predisposizione di tutte quelle misure per cui il nemico, in vista delle conseguenze per un suo possibile attacco, è dissuaso dal metterlo in opera. Una sorta di equilibrio. Come possiamo sperare che uno Stato decida di disarmarsi se gli altri non lo fanno?

“Parlando in astratto, lo schema con cui le grandi e medie potenze governano gli avvenimenti del mondo è uno sistema vecchio, superato dai fatti. Gli Stati dovranno presto rivedere le loro chiavi di interpretazione. Oggi il mondo è talmente connesso, ognuno di noi talmente necessario agli altri, che la guerra diventerà uno strumento sullo sfondo, non sarà più conveniente. Sarà più conveniente andare a trattare che andare a conquistare, imporre, combattere. Ci vorrà tantissimo tempo ma credo che, se non ci distruggeremo prima, la linea evolutiva sarà quella. Un esempio sorprendente di questo processo sono le azioni di due protagonisti inaspettati come Reagan e Gorbaciov, che negli anni Ottanta hanno fatto passi avanti significativi verso il disarmo nucleare (vedi il trattato START I nda).”

Tutto questo, però, ho il timore possa avvenire solo dopo un grande shock. Una guerra mondiale, una deflagrazione di qualche tipo…

“Il timore di un cambiamento radicale dovuto a un grande shock è normale che sia parte dei nostri pensieri. Ma è un pensiero culturalmente legato all’idea che la guerra sia un elemento fondamentale dell’evoluzione umana: ma non è così. La nostra specie si è evoluta in un contesto di pace.

Il punto fondamentale è l’intuizione. Se una figura controversa come Reagan è stata capace di trovare un compromesso, non vedo perché non possa succedere ancora. La speranza è che intuizioni e azioni inaspettate possano portare a cambiamenti significativi.

La soluzione sta nella costruzione della Pace non più come movimento ma come sistema politico. Dobbiamo cominciare a ragionare di pace come una costruzione politica, esattamente come lo è stata la teoria liberale o socialista.

Ma in concreto cosa crede sia necessario fare per ridurre l’impatto dell’ambiente militare sul pianeta?

“Possiamo lavorare individualmente e collettivamente. Dobbiamo riappropriarci del termine “politico” e partecipare attivamente alla costruzione di un futuro migliore. Dobbiamo chiedere che nelle scuole siano fatti dei cambiamenti nel racconto che si fa della storia e nell’uso delle parole. Dobbiamo creare occasioni di incontro, anche con strumenti diversi, anche con gli strumenti delle nuove generazioni.

È un lavoro che va fatto quotidianamente. L’alternativa è un vicolo cieco che non sappiamo dove ci porta.

Inoltre, è fondamentale un’informazione corretta per capire chi finanzia gli investimenti e chi arma chi. È importante conoscere l’effettivo peso dell’industria delle armi per il PIL (per l’Italia è l’1,5% nda) e considerare la riconversione del settore come una possibilità reale per il futuro. E dobbiamo tornare a dare centralità all’ONU come organizzazione sovranazionale.

Gli Obiettivi del Millennio proposti dall’ONU nel 2000 non sono stati raggiunti fino in fondo, ma avevano funzionato. Avevano creato un miglioramento complessivo a livello internazionale. Erano diminuite le persone che morivano di fame, due terzi dei Paesi avevano raggiunto l’autosufficienza alimentare, il reddito pro capite era aumentato. Un benessere di cui non parliamo e di cui non parlavamo. Siamo stolti. Perché non parliamo delle cose positive? Le cose positive creano altre cose positive. Ti danno lo stimolo per cambiare.

L’ONU aveva tracciato una strada che per un ventennio aveva dettato delle condizioni favorevoli alla cooperazione. Questi risultati si sono avvicinati all’obiettivo. Abbiamo le prove che si possono realizzare. Non è teoria, non è utopia. È una cosa estremamente pratica.”

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Marzio Fait

Marzio Fait

Marzio Fait. Mi occupo di comunicazione per il non-profit. Ho partecipato come observer alla COP 27 e alla COP28. Mi occupo di attualità, di diritti umani e di giustizia climatica. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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