Secondo una recente stima delle Nazioni Unite, nell’ultimo anno di guerra tra Russia e Ucraina hanno perso la vita oltre 7000 civili, mentre più di 12000 sono rimasti feriti. Le valutazioni dell’ONU, però, non si fermano qui: oltre 8 milioni di persone hanno dovuto lasciare il Paese e altri 13 milioni non hanno attualmente acqua potabile e assistenza sanitaria. Per quanto sia importante raccontare e tenere alta l’attenzione su un conflitto così vicino e allo stesso tempo così violento, bisogna tenere a mente che nel mondo, si stanno susseguendo numerose guerre, scontri e violenze, di cui spesso ignoriamo l’esistenza.

Tali scenari contribuiscono ad aumentare l’instabilità sociale dei Paesi in cui si svolgono, ne danneggiano l’economia e ingabbiano i diritti civili e sociali di migliaia di persone.

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Cos’è un conflitto? Il lavoro dell’UCDP

Secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), un programma di ricerca sui conflitti realizzato dall’Università svedese di Uppsala, nel mondo si conta che siano in atto 170 conflitti. Con “conflitti” non si fa riferimento solo a quei contesti dove gli eserciti di due Paesi si fronteggiano su ampia scala, ma anche a scontri armati di diversa intensità che possono coinvolgere a vario titolo Stati, organizzazioni criminali e bande armate o la popolazione civile.

Alla base dei conflitti armati possono esserci le ragioni più svariate, ma tendenzialmente sono riconducibili ad alcuni fattori chiave, tra cui il possesso delle risorse e dell’energia, la pressione demografica, gli aspetti culturali ed ideologici, i cambiamenti nel contesto geopolitico e la crisi climatica.

In particolare, facendo riferimento alla teoria politica, Stuart Bremer ha individuato quattro war predictors, quattro elementi che possono contribuire allo scoppio di un conflitto. Questi riguardano le dispute territoriali; la presenza di alleanze, che possono sia a inasprire che distendere i rapporti tra gli Stati; una possibile situazione di insicurezza dovuta alla corsa agli armamenti e la presenza di instabilità domestica, che spesso può condurre alla deflagrazione di guerre diversive contro un nemico esterno.

L’UCDP individua tre tipologie di “conflitti”. Innanzitutto ci sono i cosiddetti State-based armed conflict, ossia quei conflitti dove si registra una posizione incompatibile tra uno Stato e l’altro o nei confronti di un’altra organizzazione. Poi ci sono i non-State conflict, cioè quei conflitti che vedono coinvolte organizzazioni e bande armate locali. Infine, ci sono le cosiddette one-sided violence, ossia quelle violenze perpetuate da uno Stato o da un’organizzazione armata nei confronti dei civili, dove l’attacco, quindi, è unilaterale.

Un focus sulle guerre nel mondo

Secondo gli ultimi dati dell’UCDP, nel 2021 erano in atto 54 State-based violence, 76 non-State conflict, e 40 one-sided violence, che hanno causato la morte di almeno 119.000 persone.

Tra i 54 conflitti State-based violence nel 2021 se ne conteggiavano due in Europa: quello tra l’Azerbaigian e la repubblica separatista del Nagorno-Karabakh, e quello tra l’Ucraina e i separatisti filorussi, poi sfociato nell’invasione russa del febbraio 2022.

Tra i 76 non-State conflict figuravano gli scontri armati tra vari cartelli della droga messicani, quelli tra varie organizzazioni criminali in Brasile e quelli tra le varie etnie e gruppi religiosi in alcuni Paesi dell’Africa.

Nelle 40 one-side violence venivano invece conteggiate le violenze di vari governi verso i civili, come quelle dei talebani in Afghanistan o più recentemente quelle perpetrate dal governo iraniano sui manifestanti scesi in piazza per protestare in seguito alla morte di Mahsa Amini.

 

Le guerre, il conflitto, sembrano essere un elemento insito nella natura umana. Forse la soluzione non sta tanto nel ricercare utopisticamente la loro eliminazione, quanto nel minimizzare al massimo i loro impatti negativi, prevenendo la corsa agli armamenti e facilitando processi di cambiamento in modo nonviolento, sostenibile ed equo.

La necessità di lavorare sugli aspetti sociali ed economici dei conflitti, ossia sulle loro cause strutturali e di lunga durata, fu riconosciuta già nel 1992 con l’Agenda per la Pace, un report, scritto dall’allora Segretario ONU Boutros Boutros-Ghali, che conteneva delle raccomandazioni sulle modalità per rafforzare e rendere più efficiente la capacità dell’ONU di diplomazia preventiva, di pacificazione e di mantenimento della pace.

Da allora, gli interventi internazionali si sono moltiplicati, sia attraverso operazioni condotte dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni regionali e da numerose ONG, sia attraverso missioni diplomatiche sempre più numerose e influenti.

Come sostiene l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, quindi, per ottenere una soluzione valida e duratura è necessario adottare un approccio olistico che permetta l’inclusione di tutti gli attori dell’ecosistema sociale. Continuando ad adottare un approccio emergenziale ai conflitti, la risposta militare rimane la più semplice ed immediata. Il superamento di questo paradigma, però, consentirebbe di lavorare sulla costruzione della pace nel lungo periodo, in modo strategico e trasformativo.

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Marzio Fait

Marzio Fait

Marzio Fait. Mi occupo di comunicazione per il non-profit. Ho partecipato come observer alla COP 27 e alla COP28. Mi occupo di attualità, di diritti umani e di giustizia climatica. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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