Quando si invitano gli amici a provare un ristorante etnico aperto da poco, a tutto si pensa tranne che alla politica mondiale. Eppure – considerando i tipi di cucina internazionale più diffusi in Italia – un dato salta all’occhio. Tutto si muove, infatti, attorno alle cucine di alcuni Paesi (e non di altri) che ci attraggono col loro appeal esotico. Thailandia, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, ma anche Libano e Perù: cosa accomuna queste nazioni? E perché, negli ultimi anni, anche in Italia è aumentato il numero di locali legati alla loro cultura?

Una risposta c’è: dietro alla promozione delle tradizioni culinarie di alcuni Paesi medio-piccoli c’è una precisa, e seria, strategia diplomatica. In questo senso si parla di “gastrodiplomazia”, parola che descrive uno specifico programma di investimenti nel settore della ristorazione – concepita come nuovo linguaggio interculturale. Tale programma consente a Paesi di ridotte dimensioni – o senza grandi economie – di migliorare la propria reputazione agli occhi del mondo. E di farlo attraverso un mezzo che da sempre conquista i cuori (e i palati) di tutti, accorciando le distanze tra i popoli.

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Il cibo e la diplomazia, un rapporto che dura da secoli

A livello antropologico, in ogni cultura si riconosce l’importanza del rituale con cui gli uomini condividono il cibo. Scriveva infatti il filosofo greco Epicuro:

Dobbiamo trovare qualcuno con cui mangiare e bere prima di cercar qualcosa da mangiare e da bere”.

A maggior ragione – nel corso della storia – i banchetti hanno svolto un ruolo fondamentale durante gli incontri ufficiali tra le grandi personalità. Che si trattasse di stringere nuove alleanze, combinare matrimoni strategici o quant’altro, la politica ha sempre amato “sedersi a tavola”. Perché spezzare il pane e dividerselo è un gesto che possiede una grande potenza.

Dunque, il dialogo favorito dai contesti conviviali, di per sé, non sarebbe un “nuovo linguaggio”. Anche in epoca recente, la condivisione del cibo durante gli incontri internazionali ha avuto il suo peso simbolico. Un peso rafforzato dal fatto di esser mostrata, e diffusa tra la gente, dai media di massa. Un esempio fu la storica visita del presidente americano Richard Nixon in Cina, nel 1972. Di tale incontro – che aiutò gli Stati Uniti e la Cina a ricostruire le proprie relazioni diplomatiche – circolarono diverse foto; anche quelle dei pranzi ufficiali.

Le immagini in cui Nixon cercava di utilizzare le bacchette per mangiare ebbero un grande impatto mediatico, specie in anni in cui il pubblico occidentale non sapeva farlo. Tutto ciò ebbe anche delle conseguenze involontarie. Fece conoscere in Occidente, infatti, pietanze come l’anatra alla pechinese o i ravioli al vapore.

Un altro esempio – in certo senso ancor più significativo – fu l’incontro, nel 2018, tra il presidente Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un. Tale evento, svoltosi a Singapore, aveva come obiettivo principale la discussione intorno alla denuclearizzazione della penisola coreana. Dopo la storica stretta di mano iniziale, i due leader sedettero a tavola per una “colazione di lavoro”. Giova ricordare che il menu, in quell’occasione, combinava pietanze asiatiche e occidentali. Si trattò, insomma, di un uso sapiente della cucina internazionale al servizio della diplomazia.

Un universo di strategie dietro la cucina internazionale

Nel frattempo, il mondo è andato avanti. Il dialogo tra Cina e Stati Uniti procede a fasi alterne. Tuttavia, la conoscenza delle culture degli altri popoli avviene ancora – sul piano della vita quotidiana – attraverso l’incontro con la cucina internazionale. Ed è qui che entra in gioco la “gastrodiplomazia”: un insieme di investimenti che consentono a Paesi piccoli di promuovere la propria immagine nel mondo tramite il cibo. Tale strategia si concretizza in varie attività, tra cui la principale è senz’altro l’apertura di catene di ristoranti nelle maggiori città del mondo.

Il termine gastrodiplomazia fu usato per la prima volta dal settimanale “The Economist” nel 2002. Proprio in quell’anno la Thailandia sviluppò uno tra i primi progetti orientati in tale direzione. L’obiettivo era quello di portare, in un anno, il numero di ristoranti thai nel mondo da 5.500 a 8.000, e di raggiungere un aumento delle esportazioni di prodotti alimentari. Nel 2018 i ristoranti thai sparsi nel globo erano oltre 15.000. In più, la gastrodiplomazia ha contribuito a incrementare il numero annuo di turisti nel Paese.

La Corea del Sud, in questo senso, è stata un modello ancor più brillante. Percependo la propria immagine di nazione industriale come “cannibalizzata”, in qualche modo, dal Giappone, essa decise d’investire sul nuovo linguaggio della cucina. Ciò portò, in breve tempo, a un aumento considerevole del numero di ristoranti coreani all’estero (nel 2017 erano circa 40.000). In più, la tradizione culinaria coreana puntò ad allinearsi agli standard alimentari internazionali di controllo del cibo – ad esempio quelli del “Codex Alimentarius”.

cucina internazionale, un nuovo linguaggio

La cucina internazionale è il nuovo linguaggio diplomatico con cui i Paesi promuovono la propria cultura nel mondo. Fonte: Unsplash

La passione per la cucina internazionale: un asset diplomatico anche per l’Italia

Il primo fattore che ha reso possibile la gastrodiplomazia è stata la globalizzazione del cibo. Grazie a essa, gli ingredienti e i professionisti delle varie tradizioni culinarie hanno raggiunto facilmente ogni luogo. Allo stesso tempo, a favorirla è stata anche una crescente ricerca dell’“autenticità” delle cucine etniche. Soprattutto come reazione ai tanti riadattamenti che esse subiscono per incontrare i gusti dei Paesi ospitanti.

In questo senso, l’Italia ha degli asset invidiabili per poter parlare questo nuovo linguaggio. Basti pensare ai punteggi di gradimento totalizzati – in tempi recenti – dal formaggio italiano a livello mondiale. Tutto ciò confermerebbe la naturale vocazione del Belpaese a essere – anche alla luce del suo patrimonio – una “potenza culturale” più che militare. Praticare la gastrodiplomazia, infatti, vuol dire affermare la propria rilevanza tra le nazioni senza alcun uso della forza.

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Edoardo Monti

Edoardo Monti

Ho lavorato per anni come freelance nell'editoria, collaborando con case editrici come Armando Editore e Astrolabio-Ubaldini. Nel 2017 ho iniziato a scrivere recensioni per Leggere:tutti, mensile del Libro e della Lettura, e dal 2020 sono tra i soci dell'omonima cooperativa divenuta proprietaria della rivista.

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