Prodotti di massa, venduti a basso prezzo, ma spesso di scarsa qualità e inquinanti. È su questo che si basa l’industria del fast fashion, diffusasi attraverso piattaforme online come Shein e Temu. Da alcuni mesi, l’Unione Europea sta studiando un piano per contenere la circolazione dei loro prodotti, e adesso anche gli USA sembrano muoversi in tal senso. Finora, infatti, le due aziende cinesi potevano importare merce di valore inferiore a 800 dollari senza pagare dazi. Il neopresidente Trump, al contrario, ha annunciato di voler eliminare tale escamotage, per spingere le due piattaforme ad aumentare i prezzi. La politica americana della “guerra dei dazi”, dunque, potrebbe avere anche aspetti positivi, riuscendo a limitare la diffusione di prodotti tossici e difficili da smaltire.

Il fast fashion negli USA e l’esigenza di regolamentare un mercato troppo concorrenziale

Non è trascorso molto tempo dal giuramento di Donald Trump (avvenuto il 20 gennaio 2025) come nuovo Presidente degli Stati Uniti. Eppure, a partire da tale momento, due colossi del fast fashion come Temu e Shein hanno iniziato a registrare, rispettivamente, una flessione delle vendite negli USA del 16 e del 41%. Ciò si è verificato come conseguenza della volontà, espressa da Trump, di eliminare una scappatoia commerciale, nota come de minimis, finora sfruttata da queste aziende. Essa consentiva loro d’importare pacchi dal valore inferiore a 800 dollari senza pagare dazi o tariffe di importazione.

Oltre a subire un aumento delle spese da sostenere, i siti di e-commerce avranno l’obbligo di fornire alla US Customs and Border Protection i dati utili a identificare il contenuto dei pacchi spediti. Attraverso tali misure, la nuova amministrazione USA intende tutelare il mercato statunitense dalla concorrenza a buon mercato rappresentata dal fast fashion. Infatti, oltre a comportare dei ritardi nelle spedizioni, esse spingeranno aziende come Shein e Temu ad aumentare i propri costi di vendita. Di conseguenza, i consumatori saranno portati a scegliere alternative con tempi di consegna più brevi e spedizioni tracciabili.

I pericoli etici e ambientali che si celano dietro la “moda veloce”

L’espressione fast fashion è usata per indicare la produzione, a ritmi elevati, di collezioni di capi a basso costo e di scarsa qualità. Negli ultimi anni, la comparsa di grandi gruppi di e-commerce orientati a un pubblico giovanile ha portato a una crescita esponenziale di tale mercato. La maggior parte dei capi della “moda veloce” è realizzata in Paesi come il Bangladesh e la Cina, ed è per questo che, dietro simili produzioni, spesso si celano dei problemi etici rilevanti: in primis, quelli legati allo sfruttamento lavorativo, anche nei confronti di minori.

Oltre a ciò, un altro problema che riguarda il fast fashion è rappresentato dal suo grande impatto ambientale. Infatti, accanto all’inquinamento provocato dall’alta quantità di capi prodotti, anche i lunghi spostamenti della merce fra i continenti e lo smaltimento dei capi invenduti sono fattori non trascurabili. Data la loro bassa qualità, infatti, questi indumenti tendono ad avere vita breve, causando una maggiore produzione di rifiuti.

L’Europa tiene sotto controllo la crescita di Temu e Shein

Anche l’Unione Europea, prima degli USA, ha indicato la scappatoia doganale del de minimis, di cui usufruiscono Shein e Temu, come una minaccia alla competitività di altre aziende e alla ricerca di alternative sostenibili al fast fashion. Lo scorso anno, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha affermato che, nel 2024, il 91% dei pacchi di valore inferiore a 150 euro entrati nella UE proveniva dalla Cina.

A tale scopo, la UE sta pianificando di rivedere proprio la soglia dei 150 euro finora prevista per l’esenzione dai dazi europei. Una riforma del Codice doganale dell’Unione, infatti, è attualmente in fase di discussione, e intende richiamare i consumatori di tutta Europa a una presa di coscienza contro le scelte economiche dannose.

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Edoardo Monti

Ho lavorato per anni come freelance nell'editoria, collaborando con case editrici come Armando Editore e Astrolabio-Ubaldini. Nel 2017 ho iniziato a scrivere recensioni per Leggere:tutti, mensile del Libro e della Lettura, e dal 2020 sono tra i soci dell'omonima cooperativa divenuta proprietaria della rivista.

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