Alle undici e mezza del 14 luglio 1948, in una Roma stretta da una morsa di caldo umido, Palmiro Togliatti, in compagnia dell’onorevole Nilde Iotti, usciva da una porta secondaria del palazzo di Montecitorio per recarsi in una vicina gelateria. Tutto avvenne con grande fretta. La strada era pressochè deserta: solo un paio di giornalisti, una guardia e un ragazzo, che passandogli di fianco, lo sfiorò. Superò la coppia e infine, estraendo una pistola (che la leggenda vuole si fosse incastrata nella cinta dei pantaloni), con mano tremula, sparò. Tre colpi secchi. Il segretario del Partito Comunista cadde a terra, immobile, agonizzante. L’Italia, invece, insorse. Seguirono giorni di aspre rivolte. La guerra civile sembrava inevitabile.

In quegli stessi giorni, a centinaia di chilometri a nord di Roma, la Francia era teatro di un evento sportivo tra i più attesi dell’anno: il Tour de France. Il giorno dopo l’attentato, si sarebbe disputata la Tappa, la temibile Cannes – Briancon, l’étape reine, la tappa regina: 274 km di ripide salite e ancor più terribili discese. Difficile, se non impossibile far scivolare le sottili ruote della bici su strade usurate e discontinue, dove tratti di manto fangoso si alternavano a ghiaino ghiacciato.  E come non bastasse, il tempo di quell’estate sembrava voler mettere alla prova l’abilità dei ciclisti. La stagione del ’48 non era certo iniziata come un’annata positiva per il campione toscano Gino Bartali. Attaccato dai cronisti, che malignavano sulla sua età, Bartali aveva cominciato davvero a sentirlo il peso dei suoi 34 anni. Troppi – dicevano – anche per un campione della sua pasta. In molti erano pronti a mettere la parola “fine” sulla sua storia agonistica. Ma pochi avevano fatto veramente i conti con la tempra e la determinazione dell’uomo.

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La storia, si sa, è un impasto di fatti e aneddoti. Ed è proprio uno di questi a raccontare l’episodio della telefonata (forse su suggerimento del giovane Giulio Andreotti) che un preoccupatissimo De Gasperi, allora Presidente del Consiglio del neo nato governo italiano, fece allo sportivo la sera stessa dell’attentato a Togliatti e della vigilia alla mitica corsa. De Gasperi ha un favore da chiedere a Bartali: dare il massimo, e non solo per sé, ma per il popolo, per riunire gli animi degli italiani, in quel momento divisi dall’odio e scongiurare così una guerra civile a suo (e non solo) parere imminente. Solo lui avrebbe potuto salvare l’Italia. Nessuno sa se questa telefonata abbia mai avuto luogo: è certo però che la mattina del 15 luglio 1948, in una Cannes febbricitante, qualcosa di straordinario successe, anche se furono in pochi quelli che si accorsero della luce emanata da Gino Bartali alla linea di partenza.

Nel libro “La strada del Coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso”, Aili e Andres McConnon raccontano le fasi più significative di quella gara, in un crescendo di emozioni fino ad arrivare a quel mulinar di gambe che, parafrasando le parole di un giornalista dell’epoca, pareva che il buon Dio avesse tolto le ali a uno dei suoi angeli per metterle sulla schiena di Bartali. Mi sento un gigante”. Era questo l’unico pensiero che si faceva strada nella mente di Gino, che senza guardare a destra o sinistra, sfrecciava, vestito di fango e del grasso che si era spalmato addosso per proteggersi dal freddo. “Uomo e bicicletta erano diventati una cosa sola  – raccontano i fratelli McConnon – come una massa pulsante di muscoli e acciaio cromato che baluginavano nella pioggia sottile”.

È questo il momento in cui l’uomo diventa mito e la sua storia leggenda. Ecco l’impresa per la quale gli animi s’infiammano, decretando l’immortalità delle gesta di un atleta e della sua storia.  È questo l’istante in cui il dolore si fa forza, la motivazione si fa energia e la voglia di vincere diventa realtà. E’ quell’attimo, protratto all’infinito, in cui la mente dello sportivo, concentrata e divertita, non lascia spazio a nient’altro. E’ il momento in cui tutto il resto scompare e l’unica cosa che rimane sono l’uomo e la sua sfida, che nel caso di Bartali significa “vincere per se stesso ma anche per l’Italia”. E’ lì che l’atleta, nel pieno controllo della sua azione, si spinge oltre i propri limiti fisici e mentali: è il flow, l’esperienza ottimale, di cui parla lo psicologo Mihaly Csikszentimihaly in questo video…

L’esperienza del flow è uno stato di coscienza che ripaga lo sportivo dello sforzo, della resistenza e del dolore provato per giungere ad un determinato risultato. Alla vittoria di quel 15 luglio se ne inanellarono altre, fino a quella clamorosa e inaspettata del Tour del 25 luglio 1948. Bartali vince, per se stesso, per il figlio Andrea, per Palmiro Togliatti (ormai fuori pericolo, ma degente in un letto di ospedale), per Alcide De Gasperi e per l’Italia tutta, che in quel momento di gioia si stringe in un abbraccio di fraterno patriottismo.

Quale ruolo ebbe, in quella vittoria, il senso di responsabilità avvertito da Bartali, rimarrà uno dei grandi misteri di questa affascinante storia. Quello che possiamo affermare con certezza è che sono molti gli sportivi che avvertono forte questo sentimento verso le persone che, a vario titolo, li supportano e sostengono. Questa consapevolezza, di cui sono portatori gli atleti, si accompagna spesso ad un incredibile senso di pro-attività e spirito d’iniziativa, come il caso emblematico di Giusi Versace, campionessa para-olimpica di atletica leggera, detentrice del record italiano dei 200mt ed europeo dei 100mt. Ma questa è un’altra storia…

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Valentina Marchioni

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