I resi sono apprezzatissimi da chi fa acquisti online ma spesso sono un peso per le aziende. Lo shopping online è infatti un fenomeno alla portata del consumatore, che tende ad apprezzare particolarmente l’opzione di reso gratuito. Ma cosa succede ai prodotti che vengono resi? Tendenzialmente sono costi sommersi per le imprese, anche se iniziano a comparire soluzioni che possono finalmente renderli sostenibili – sotto l’aspetto sia ambientale che finanziario.

La gestione dei resi degli acquisti: verso la sostenibilità

Negli ultimi anni il Black Friday ha iniziato a segnare l’inizio del periodo dello shopping invernale, che tocca un apice intorno alle feste natalizie e poi ancora a gennaio con l’inizio dei saldi. Una buona parte degli acquisti ha luogo online, incentivati anche dalla possibilità di rendere indietro il prodotto gratuitamente. Infatti, i consumatori sono fortemente influenzati nelle loro decisioni di acquisto dalle politiche di reso e rimborso disponibili (o meno) presso i rivenditori.

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Ma per le aziende? Spesso sono un vero e proprio incubo logistico, unito al dover svolgere in seguito ulteriori processi di pulizia e riconfezionamento sul prodotto. Nel dettaglio, i costi dei rivenditori si distribuiscono su imballaggi, trasporto e gestione delle richieste di reso. Una delle pratiche più problematiche è quella del cosiddetto wardrobing, a tutti gli effetti una forma di reso fraudolenta. Accade quando un cliente indossa l’abito (per esempio in occasione di un evento) e poi semplicemente lo rispedisce indietro con una scusa.

Come rendere i prodotti rispediti indietro più sostenibili? Oltre alla trovata hi-tech dei camerini di prova virtuali (già testata da Amazon Fashion), una proposta interessante e sostenibile (anche nell’ottica della moda circolare) è quella dei resi peer-to-peer. In questi casi gli articoli indesiderati vengono semplicemente spediti in via diretta a un altro cliente interessato all’acquisto di quel prodotto. Si riesce a evitare, così, sia che la merce torni al rivenditore, sia che il cliente iniziale debba pagare una tassa di reso. Un’idea interessante, che punta a responsabilizzare il consumatore finale senza togliergli libertà di scelta.

Le aziende contro lo shopping compulsivo

Molti acquirenti amanti degli acquisti online spesso approfittano (e abusano) della possibilità di reso gratuita offerta dalle aziende, cimentandosi in pratiche “resi compulsivi”. In cosa consistono? Si ordinano indumenti o accessori in molti taglie o colori diversi, per provarli. Sapendo già a priori che si finirà per fare il reso della maggioranza, una volta scelta la combinazione/variante preferita. Questi comportamenti, spesso documentati nei video haul su Youtube e TikTok, mettono in difficoltà le aziende.

Tanto che alcuni marchi specialmente del segmento fast fashion (i più presi di mira dal fenomeno) come Zara, Yoox, H&M, Abercrombie & Fitch o addirittura Amazon, hanno avanzato la controproposta di scaricare i costi di spedizione di reso sui consumatori. Una dinamica che potrebbe però incidere molto negativamente sul settore e-commerce: dato che – come riporta la ricerca OnePoll commissionata da Trustpilot – ben il 58% dei consumatori sceglie di non acquistare in siti e negozi che non garantiscono la restituzione gratuita degli articoli ai clienti.

In conclusione, il reso rappresenta comunque un messaggio per i rivenditori: c’è qualcosa che non va nel passaggio da online a offline. Potrebbe essere un problema di scala di taglie, foto o video che non rendono, presentazione del prodotto in generale. Ma la scelta di reso – oltreché momento di riflessione – può essere anche un’occasione per praticare una moda sostenibile.

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Virginia Allegra Donnini

Virginia Allegra Donnini

Con un background di studi ed esperienze lavorative a cavallo tra economia, marketing e moda scrivo di tendenze, pop culture, lifestyle. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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