Negli ultimi giorni, in seguito agli Stati Generali della Natalità tenutesi l’11 e il 12 maggio, l’opinione pubblica si è concentrata molto sul cosiddetto “inverno demografico”, ovvero il fatto che in Italia nascono sempre meno bambini e la popolazione sta diventando costantemente più vecchia. Nel 2022, le nascite sono rimaste per la prima volta sotto le 400 mila unità con una decrescita costante dal 2008.

Molto spesso quando si tratta questo fenomeno nell’opinione pubblica, le credenze ideologiche e le prese di posizioni di principio oscurano la capacità di tracciare quelle problematiche strutturali e culturali che lo determinano. Spesso, infatti, si riduce la scelta di procreare alla mera volontà, quando invece i dati ci indicano che non è così. Nonostante il nostro sia uno dei paesi con la fecondità più bassa, allo stesso tempo quella desiderata è fra le più alte d’Europa.

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Partendo dalla grandissima mole di dati forniti dal report “Le equilibriste. La maternità in Italia” di Save The Children,  in questo articolo, cercheremo di capire quali sono e le maggiori difficoltà che riscontrano in particolare le madri, nel momento che desiderano e/o hanno figli e in che modo un lento ma estremamente necessario cambio di passo sta migliorando le cose.

Lo snodo principale: essere madri significa molto spesso perdere il lavoro

Oltre agli altissimi costi che la vita ha in Italia e il ritardo nell’entrare nella dimensione di coppia tipica di tutta la popolazione – dovuta al prolungarsi degli studi e ad una generalizzata instabilità lavorativa – la dinamica principale messa in luce nel report ha una forte connotazione di genere.

Ciò che emerge con estrema chiarezza è il fatto che i tassi di occupazione in Italia sono decisamente influenzati dal genere e dalla presenza o meno di almeno un figlio all’interno delle famiglie.

Si legge nel report: “Per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni il tasso di occupazione totale è del 82,7% e varia dal 76,1% senza figli, crescendo a 90,4% per chi ha un figlio minore e al 90,8/ per chi ne ha due. Per le donne la dinamica è inversa: il tasso di occupazione totale è più basso, 62% con il picco massimo (67%) tra le donne senza figli, e il picco minimo 56,1% tra quelle con due figli minori. Nel mezzo le donne con un figlio minore al 63%.” In sostanza, quindi, se per gli uomini fare figli a livello lavorativo conviene, per le donne invece questo risulta essere ancora un forte discrimine.

La dinamica sopra espressa è intrecciata anche con un altro dato emerso. Ovvero il fatto che “per le madri avere figli riduce il tempo e l’energia al lavoro” perché sopraffatte da quello che viene chiamato il lavoro di cura. Al contrario, i padri godono di un giudizio positivo legato “all’alta produttività” e al “bisogno di provvedere alla famiglia.” Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in Italia le donne sono responsabili del 74% del totale delle ore che una famiglia dedica al lavoro non retribuito di assistenza e cura.

Natalità e condivisione della genitorialità

Su questo punto, però, qualcosa sta cambiando soprattutto per quanto riguarda l’approccio e la cultura. Si legge nel report che “i dati a disposizione ci mostrano un trend, lento ma crescente, legato alle scelte lavorative che, nel caso dei padri, richiamano l’esigenza di bilanciare meglio e di più la vita familiare con quella lavorativa.

Tra gli indicatori più interessanti si rileva che i padri, nel 40% dei casi, accusano difficoltà o molta difficoltà a conciliare cura e lavoro. Sono in aumento quegli uomini che adducono a questa difficoltà la motivazione del loro licenziamento. Nello specifico, 1158 padri rispetto ai 743 del 2020 hanno deciso di licenziarsi a cause della mancata concessione del part-time, un’organizzazione del lavoro troppo gravosa o inconciliabile con la cura dei figli e la lontananza dalla famiglia.

Il dato che infonde maggior fiducia nel futuro è sicuramente legato all’analisi delle fasce più giovani della popolazione. Sono rispettivamente il 70% e il 71% i padri giovani che curano i figli e giocano con loro abitualmente. Scendendo al 49% e 53% nella fascia tra i 30 e i 39.

Infine è in costante aumento il numero di padri che usufruiscono del congedo di paternità introdotto nel 2012. Qui le percentuali sono salite dal 19,23% al 57,6%. Il report ci dice che “il dato non può che migliorare nei prossimi anni” con l’aumento del bacino di coloro che ne possono usufruire (lavoratori autonomi, parasubordinati e impiegati nel settore pubblico) e l’eventuale introduzione di vincoli o sanzioni. Per quanto riguarda i congedi parentali facoltativi gli uomini ad usufruirne sono raddoppiati dal 2013.

In linea di principio, sembra che la capacità del nostro Paese di migliorare i dati sulla natalità dipenda da un numero molto grande di cause e concause – non sintetizzabili in questa sede – tra cui la pratica di una genitorialità condivisa e in controtendenza agli stereotipi egemonici risulta fondamentale.

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Camilla Valerio

Camilla Valerio

Mi piace scrivere di diritti, sport, attualità e questioni di genere. Collaboro con il Corriere del Mezzogiorno e scrivo per BuoneNotizie.it grazie al progetto formativo realizzato dall'Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo.

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