Tra le pratiche scorrette più nominate da media ed esperti figura spesso il greenwashing, ma non bisogna sottovalutare anche il pinkwashing. È importante fare chiarezza su questo fenomeno, soprattutto in questo periodo dell’anno, dopo ottobre: mese dedicato, appunto, alla prevenzione del tumore al seno femminile.

Cosa è il pinkwashing?

Questo termine inglese è stato coniato dall’organizzazione statunitense Breast Cancer Action nei primi anni 2000, all’interno della campagna Think Before You Pink. Deriva dall’unione del sostantivo pink (rosa) e del verbo to whitewash, che significa letteralmente ‘imbiancare’ e in senso figurato ‘occultare’. Pinkwashing è una parola che va a identificare le aziende che fingono di sostenere le persone malate di tumore al seno, traendo invece spesso qualche forma di profitto. In senso più ampio fa riferimento alla promozione di un prodotto o di un ente attraverso un atteggiamento di apparente apertura nei confronti dell’emancipazione femminile.

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Il pinkwashing si configura quindi come pratica scorretta. Al centro ha – ingannevolmente – la prevenzione e cura del cancro al seno. Mentre proprio questa buona causa viene strumentalizzata dalle aziende al fine di vendere. Infatti le aziende che sfruttano il potere del nastro rosa tendono a guadagnare su due fronti. A livello economico in primis, poiché i prodotti “rosa” vendono di più in quanto ritenuti più etici. E in secondo luogo ci guadagnano in reputazione positiva, perché appaiono come produttori più aperti e inclusivi. Questo comportamento è stato definito proprio come marketing con il nastro rosa.

Il ruolo dei consumatori diventa pertanto centrale. Infatti il potere di scelta del portafoglio è discriminante. Scegliere di acquistare i prodotti di un’azienda invece di un’altra ha un peso economico e sociale: operando per cercare di evitare di andare a finanziare iniziative ingannevoli e aziende che, purtroppo, (in alcuni casi) si sono rivelate anche produttrici e venditrici di prodotti contaminati con sostanze chimiche correlate a favorire l’insorgere della malattia stessa.

Combatterlo per proteggere le iniziative per il tumore al seno

Le armi migliori per combattere queste pratiche scorrette sono la trasparenza e l’informazione. Sta proprio ai consumatori pretendere entrambe e fare la differenza. Come riporta un articolo de IlFattoQuotidiano.it, per fare luce sul tema pinkwashing è stato realizzato nel 2012 un progetto integrale in forma di documentario – il Pink Ribbons Inc. Tratto dall’omonimo libro di Samantha King e realizzato dalla regista e sceneggiatrice canadese Léa Pool, è stato portato in Italia dalle nostre attiviste tricolori (corrispettive delle americane). Il blog più famoso al riguardo è le Amazzoni Furiose. In primo piano ci ha messo la faccia Grazia De Michele, l’attivista italiana che per prima portò nello Stivale la denuncia di Breast Cancer Action.

Il finto supporto mascherato da empowerment femminile deve essere sradicato dall’interno. Questo è il messaggio di De Michele. Perché ne va soprattutto della salute delle donne. Uno dei casi più eclatanti è quello dello yogurt Yoplait. In America veniva realizzato con latte contente l’ormone rBGH (vietato in Europa), associato ad un incremento del rischio per il tumore al seno. In seguito alla risonanza globale della denuncia, l’azienda produttrice è stata ovviamente costretta a rivederne tutta la produzione, optando finalmente per una nuova formula più sicura.

Accanto a casi simili, sicuramente molto gravi ma per fortuna rari, c’è tutto un microuniverso di ipocrisia tinta di rosa che deve essere smantellato. Questo perché va parzialmente sia a inficiare che sminuire la campagna contro il cancro killer numero uno per la popolazione femminile. Insieme alle attiviste, sta proprio a noi consumatori dire no e fare la differenza per una causa così importante.

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Virginia Allegra Donnini

Virginia Allegra Donnini

Con un background di studi ed esperienze lavorative a cavallo tra economia, marketing e moda scrivo di tendenze, pop culture, lifestyle. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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