Da Gibuti al Senegal, un muro di alberi per nuove opportunità di lavoro e tornare a rinascere nel post Covid.

Da una decina di anni, nell’Africa subsahariana, si parla di un futuro green: il merito sarà della “Muraglia verde”. Un progetto da 4 miliardi di dollari l’anno che consentirebbe di piantare alberi da Gibuti al Sudan. Il tutto entro il 2030 per combattere l’impoverimento dei terreni e la desertificazione. Il Covid e le disparità politiche nei paesi coinvolti, hanno però causato grandi rallentamenti nella sua messa a punto.

L’11 gennaio 2021, durante il One Planet Summit for Biodiversity, sono stati promessi 14 miliardi di dollari per terminare l’opera. Per ora il progetto è completo solo al 4%. Lo stesso Joe Biden, rientrato nell’accordo di Parigi, si è dimostrato propenso a trovare fondi per garantire un futuro con nuovi posti di lavoro alle popolazioni africane. L’Africa green sarà un esempio per altri paesi, che ripartiranno dopo il freno e la crisi causata anche dalla pandemia.

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Il progetto per un’Africa green

Nel 2020 l’Africa subsahariana ha sofferto la fame: i dati del global Hunger Index 2020, mostrano che 1 abitante su 5 cinque non ha accesso al cibo. Oltre al Covid, fra le cause principali, vi è l’incremento della desertificazione, che impedisce alle popolazioni di poter coltivare terreni e allevare animali. La “Muraglia verde”, prevede l’impianto di alberi della resistente acacia e coltivazioni in serra per circa 8mila km: dall’Oceano Indiano all’Atlantico, con un costo di circa quattro miliardi di dollari l’anno.

 

Doauda Gueye, mastro vetraio senegalese residente a Venezia, ci racconta quello che sta accadendo in Senegal. In un collegamento online da Tuba, mostra la consapevolezza della gravità della situazione.

“La situazione è sempre più allarmante. Sono andato via dal Senegal molti anni fa e ora sono a Tuba, dove mi trovo per aiutare la mia famiglia in questo periodo di pandemia; ho un ricordo di infanzia di spazi verdi e allevamenti diversificati. In questi ultimi vent’anni, la situazione è notevolmente cambiata: ci sono molti meno terreni coltivati e gli allevamenti sono condensati in alcune aree, mentre prima erano ampi e si potevano trovare ovunque.

Sicuramente la colpa è parzialmente da attribuire ai miei connazionali, che hanno spesso usato il legno a sproposito, senza pensare che ogni cosa che si prende, deve essere ridata: se si abbatte un albero, bisogna ripiantarne un altro; se si coltiva un terreno, bisogna ruotare le coltivazioni, altrimenti la terra si impoverisce. Nessuno ha mai creduto ad un’idea di Africa green.

Non so come sia la situazione nei paesi vicini, ma in Senegal abbiamo vissuto per anni con una presenza straniera, che ha ridotto la capacità di apprendimento della popolazione. La nostra colpa è stata la ricchezza del sottosuolo, che ha distolto l’attenzione dalle coltivazioni. Ad esempio la Parigi-Dakar attirava moltissimi turisti: Dakar era agghindata per l’occasione, con alberi e fiori, ma tutto era lasciato in abbandono, una volta terminata la gara.

Ora il problema sta davvero diventando massiccio, perché troppe persone sono affamate. Sono  ottimista per la creazione della “Muraglia verde”: finalmente il mondo si sta occupando dei finanziamenti e della sua creazione; è però necessario che venga insegnato agli abitanti del posto a mantenerla viva. Senza una buona preparazione diventerà solo un vanto per i paesi ricchi, che si sentiranno i salvatori dell’Africa, per poi dover affrontare nuovamente il problema in poco tempo”.

Il primo passo per dare una nuova speranza all’Africa

Anne Gertoux, francese laureata al Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente, del territorio e delle infrastrutture di Torino, esperta in Climate Change, ci illustra le potenzialità del progetto.

“Ormai è un tema ridondante quello dell’Africa, della fame e della povertà. Credo che per anni nessuno se ne sia occupato davvero: era comodo sfruttare gli stati africani e arricchirsi con tungsteno, malachite e diamanti. Ora, grazie anche ad un’idea di mondo green lanciata da Stati come Aruba, Arabia Saudita e Cina, le cose potranno migliorare e dare vita ad un’Africa green.

La “Muraglia verde” non risolverà del tutto la questione della crisi africana, ma sarà il primo passo per dare l’avvio alla costruzione di un’Africa nuova. Gli obiettivi sono tre: dare posti di lavoro per gli africani, creare un nuovo polmone verde per il mondo e risanare aree che non potrebbero più fiorire nel Sahara. I costi sono alti e i tempi di realizzazione lunghi: ci vorranno almeno 10 anni affinché questo possa avvenire, sperando che nel frattempo non vi siano instabilità politiche o mafie locali che sabotino o sfruttino il progetto per altri fini.

Se tutto dovesse filare liscio, la “Muraglia verde” potrebbe davvero essere l’esempio per tutti i paesi del mondo e dare sollievo all’Africa subsahariana, riducendo la desertificazione e incrementando la green economy. In seguito si potrà operare in altre aree africane, come quelle centrali, ma anche dell’Asia e del Brasile. Nel mondo vi sono associazioni e gruppi che si occupano di frenare il disboscamento, come Survival International, ma i progetti sono sempre a livello locale, mentre la “Muraglia verde” sarà il primo esempio continentale, che toccherà più di venti paesi differenti, con altrettante differenze sociali, economiche e geologiche”.

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Erika Mattio

Erika Mattio

Erika Mattio, giornalista, autrice, archeologa, antropologa, viaggiatrice, dottoranda in Antropologia fra Madrid e Venezia. Ho studiato a Istanbul e Mashhad per poi intraprendere spedizioni in Medio Oriente e in Africa. Scrivo per BuoneNotizie.it e sono diventata pubblicista grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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