In Europa studiare e lavorare contemporaneamente si può. A dirlo è uno studio di Eurostat, l’ente statistico dell’Unione europea, che afferma che il 25,7% dei giovani tra i 15 e 29 anni riesce a conciliare studio e lavoro. In Italia tale percentuale precipita fino all’8%, così come nella maggioranza dei Paesi dell’area meridionale del continente.

L’avvicinamento al mondo lavorativo mentre si sta terminando il proprio percorso formativo riserva dei chiari vantaggi, soprattutto in termini remunerativi. Eppure, la percentuale è bassa e lo è da anni. I ragazzi italiani sono effettivamente “bamboccioni”, più pigri rispetto ai loro colleghi nordeuropei o dietro questa bassa percentuale si nascondono altre motivazioni?

“Bamboccioni”, una precisazione

Il termine “bamboccione” è un neologismo usato con fin troppa ironia per definire giovani sfaccendati, inoperosi, che preferiscono accontentarsi di un’esistenza priva di slanci, spesso legata al nucleo famigliare dal quale non intendono spostarsi. L’enciclopedia Treccani definisce il bamboccione “incapace di affrontare le responsabilità o le difficoltà della vita”. Un atteggiamento ma anche una fragilità, e non una categoria umana che racchiude precise caratteristiche.

Ben diversi sono i “Neet“, i giovani che non hanno un lavoro ma neppure studiano. E questo per svariati motivi: mancanza di occupazione, di opportunità, di prospettive concrete. Questa è la categoria che lo Stato deve cercare in tutti i modi di recuperare, nel suo stesso interesse.

Studio e lavoro: ecco i dati

Il rapporto Eurostat si lega all’indagine annuale di Almalaurea, società di analisi dati, punto di riferimento del mondo accademico, sullo stato dell’occupazione dei giovani dopo la laurea. Secondo questo studio l’atteggiamento più frequente dei giovani laureati che si affacciano al mondo del lavoro è di attesa e selettività.

Molti neolaureati, il 68,1%, decidono di proseguire gli studi dopo la laurea triennale. E questo nella maggior parte dei casi perché un titolo di studio più specifico corrisponde a un lavoro meglio remunerato e più soddisfacente a livello personale.

Tra i giovani intervistati, solo il 32% dichiara che accetterebbe un lavoro sotto i 1.250 euro netti. Un dato che stride un po’ con il 76,9% che invece dichiara che accetterebbe un lavoro non coerente con il proprio percorso di studi.

Il rapporto “Laureati e Lavoro” di Unioncamere conferma. Non solo gli stipendi dei dipendenti laureati sono in calo, a causa dell’inflazione, ma è in diminuzione anche la richiesta da parte delle aziende di giovani con un titolo di studio di secondo livello (-1,9%) a fronte di un incremento degli ingressi totali (+6,9).

Gli stipendi in Europa

È chiaro che il problema non sono i giovani sfaticati ma è l’intero mondo del lavoro che non riesce ad offrire opportunità e stipendi adeguati. Lo dice l’Ocse, l’organizzazione che monitora l’andamento economico globale: la media di crescita degli stipendi dei Paesi più industrializzati è stata del 32% dal 1991 al 2022. L’Italia, che pure è parte del G7, quindi ricopre un posto rilevante nella gerarchia economica mondiale, registra una crescita dei salari pari all’1%.

Su questo, un Paese alle prese con l’inverno demografico, che fa e farà sempre più fatica a reperire i fondi per garantire uno stile di vita adeguato per tutti, ma che lascia andare all’estero le proprie forze migliori, dovrebbe riflettere.

Un piccolo incentivo

Eppure, tornando alla statistica Eurostat, se si guarda ai Paesi Europei che hanno più percentuale di studenti che lavorano, si nota un particolare interessante.

Giovani e lavoro, i dai sugli europei che riescono a studiare e lavorare contemporaneamente

Giovani che lavorano durante il ciclo di studi: in blu la popolazione occupata; in giallo quella non occupata; in viola la popolazione fuori dal mercato del lavoro nella fascia d’età 15-29

I Paesi in cui i giovani riescono di più a conciliare lavoro e studio sono gli stessi che hanno gli stipendi più alti. Senza rivelare una corrispondenza netta tra le due cose, la ricerca di Almalaurea afferma che chi ha esperienze lavorative durante la propria formazione ha il 20% di probabilità in più che venga assunto. Ma anche più soldi in busta paga. Circa 100 euro al mese in più rispetto ai colleghi con stesso titolo di studio ma che non hanno maturato esperienza lavorativa in precedenza.

In molti casi questi giovani restano addirittura nel posto di lavoro raggiunto prima della laurea o del diploma. Altri hanno maturato esperienze che sono loro tornate utili in altre mansioni. Questo e altri benefici si possono estendere a tutti quanti facciano esperienze extrascolastiche, dall’alternanza scuola-lavoro, ai viaggi studio all’estero.

Tutto ciò che ci può “arricchire” o che possiamo “guadagnare” in questo delicato percorso, quello della giovinezza e della formazione, è anche da intendersi come “valorizzare” e “valorizzarsi”. E non per forza ciò deve ricondursi al lavoro o al denaro. Dare un valore alle cose che facciamo, e quale, ci definisce come persone. Ed è da questo principio che dobbiamo partire.

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Andrea Pezzullo

Redattore, autore e conduttore radiofonico. Lo sguardo ben puntato su ciò che succede oggi intorno a noi. Mi occupo di attualità, economia e lavoro. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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