Viviamo in un periodo storico contraddistinto dalla possibilità di accedere a una sconfinata quantità di informazioni. Le maratone televisive, i reportage delle riviste di geopolitica, gli articoli sui principali quotidiani nazionali e gli approfondimenti sui social hanno contribuito a plasmare il racconto e la nostra percezione della guerra tra Russia e Ucraina. A questi prodotti di informazione convenzionale, però, in alcuni casi buoni, in altri meno, se ne aggiungono altri di cui è difficile comprendere la natura, spesso a cavallo tra bufale e propaganda.

Basti pensare, come riporta il quotidiano online East Journal, che negli ultimi due decenni alcuni oligarchi vicini al Cremlino hanno comprato importanti pacchetti azionari di alcuni giornali europei, come il France Soir, The Indipendent, The Evening Standard. Oppure si pensi alla sterminata mole di contenuti presenti sui social. Da Telegram a Tik Tok. Video, foto e post di cui è difficile comprendere la provenienza e la veridicità.

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Proprio con il direttore responsabile di “East Journal”, Matteo Zola, curatore del libro Ucraina: alle radici della guerra, parleremo di social media, propaganda e stato di salute del giornalismo italiano.

Come credi sia cambiato l’utilizzo e il ruolo di internet e social media nel contesto della guerra russo-ucraina? Che differenze hai notato nel racconto che veniva fatto nel 2014 e quello nel 2022?

“Attraverso i social media gli utenti non si limitano ad assistere all’evolversi degli eventi bellici e politici in tempo reale, ma interagiscono con essi e reagiscono ad essi. Non parlo tanto dell’apporre la bandierina ucraina sulla propria foto profilo, gesto simbolico ma anche politico, ma del fatto che attraverso donazioni, pressione sui politici, fino all’attivare reti di solidarietà verso i profughi, i social-media diventano uno strumento che consente di prendere parte attiva al conflitto anche se non si è coinvolti dal punto di vista militare. I russi lo sanno bene e già a marzo 2022 avevano preso di mira le reti di comunicazione mobile ucraine. Questi due aspetti, la partecipazione civile attraverso i social e l’attacco russo alle reti di comunicazione, non c’erano nel 2014, sia perché l’evento di allora era localizzato e quindi non mirava alla distruzione delle reti nazionali, ma solo a sganciare alcune regioni dal sistema di comunicazioni ucraino, sia perché la guerra non fu percepita dall’opinione pubblica occidentale come qualcosa che la riguardasse.

In ogni caso la guerra russo-ucraina non è il primo evento politico dell’era dei social-media: prima ci furono le cosiddette “primavere arabe” dove il ruolo di Facebook, largamente enfatizzato dai media, sempre in cerca di narrazioni da vendere al pubblico, fu comunque rilevante nell’organizzazione delle proteste.”

C’è poi la propaganda sui social network.

“L’uso della propaganda non nasce con i social media, che tuttavia ne sono veicolo. La propaganda russa ha usato molti canali per affermarsi in Europa, dall’acquisizione di testate nazionali da parte di oligarchi russi, alla pubblicazione di inserti di propaganda a pagamento nei quotidiani europei, anche in Italia, all’influenza sui comitati scientifici di riviste di settore, alle televisioni via cavo in lingua inglese, e via dicendo. Questa penetrazione nel mondo dei media influenzò la percezione europea dell’invasione della Crimea, e non si registrò allora un grosso movimento di opinione contro quell’abuso. Anzi, nel caso del Donbass si assisté a una prima edizione della difesa delle “ragioni della Russia” con una diffusione, attraverso i social-media, di falsificazioni elaborate dal Cremlino: il fantomatico genocidio del Donbass, mai avvenuto: la falsa idea che in Donbass fosse in corso una guerra civile; che al governo di Kiev ci fossero i nazisti. Per quanto riguarda l’uso dei social “sul campo”, oggi come allora servono a far filtrare video e immagini dell’aggressione militare anche se oggi si avverte una più consapevole “regia” nel loro utilizzo da parte delle forze armate ucraine, che li usano per far passare una certa idea del nemico, per farne beffe, per mostrare l’unità del popolo.” 

Ci sono dei canali affidabili attraverso cui informarsi? O degli strumenti per verificare la veridicità delle cose che si leggono e vedono online?

“L’unica possibilità è affidarsi ad auctoritates di riferimento, grandi giornali dalla solida accountability, che si siano distinti per imparzialità o, almeno, per la capacità di penetrare i problemi senza appiattirsi su narrazioni di parte. Ai miei redattori dico sempre:

“A criticare quello che non ci piace, quello in cui non crediamo, siamo capaci tutti. Cominciamo a criticare quello in cui crediamo”. Ogni giornale può risentire di un bias, politico o culturale, ed è la somma dei punti di vista a rendere le sfaccettature dei problemi.

Tuttavia, quotidiani come il Guardian; agenzie come Associated Press; giornali online come Meduza, possono restituire adeguatamente la complessità di questo conflitto. Soprattutto, occorre analizzare come sono realizzate le inchieste, qual è la metodologia utilizzata per raccogliere informazioni, come vengono validate. Ricordo una bella inchiesta sul bombardamento del teatro di Mariupol fatta da AP in cui si presentava in dettaglio la metodologia utilizzata. Certo, bisogna avere voglia di leggere – ci misi almeno mezz’ora – e occorre conoscere almeno l’inglese. Due cose che la grossa parte dell’opinione pubblica italiana non ha.”

A questo proposito, come valuti la narrazione della guerra da parte del mondo dell’informazione italiano? Credi che dal 2014 a questa parte ci sia maggior consapevolezza? È migliorato qualcosa nella narrazione del conflitto nell’ultimo anno?

“I giornali italiani non possiedono sempre le competenze necessarie per analizzare i conflitti e i giornalisti italiani che conoscono le relazioni internazionali e i contesti di conflitto sono pochi e faticano a lavorare. Penso soprattutto alle questioni africane, alla Cina, all’America Latina. Ci sono ottime realtà che descrivono queste latitudini. Penso ad esempio a China Files, a Osservatorio Balcani e Caucaso, a Nigrizia, ma sono marginali rispetto ai media mainstream. L’area post-sovietica non è messa meglio. In mancanza di reali competenze, e guardandosi bene dal cercarle altrove (ci sono ottimi studiosi di area post-sovietica in Italia, da Piretto a Graziosi, da Bellezza e Cella, da Lami a Franco), i media mainstream hanno fatto spettacolo: talk-show polemici; ministri russi che parlano senza contraddittorio; trasponendo la guerra vera in una schermaglia politica nostrana: pro-Putin, anti-Putin. In ogni caso questo non significa che non ci siano ottimi giornalisti che si occupano di Ucraina: Marta Serafini, Danilo Elia, Anna Zafesova, Andrea Nicastro, tanto per fare alcuni nomi. Ma il costante ricorso al sensazionalismo, la banalizzazione del conflitto, la mancata conoscenza della storia di quei paesi (specialmente nel periodo post-sovietico) rende l’informazione italiana generalmente inadeguata nel racconto della guerra. E in questo non vedo grossi miglioramenti rispetto al 2014. L’unica reale differenza è che, in passato, la gran parte dell’informazione tradiva una certa simpatia per le ragioni di Mosca. Oggi assistiamo invece a una generale conversione, forse di facciata, forse per convenienza. In entrambi i casi quello che manca è la capacità di restituire la complessità.

Per una panoramica più ampia dedicata a quest’ultimo tema rimandiamo all’articolo di Matteo Zola su East Journal.

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Marzio Fait

Marzio Fait

Marzio Fait. Mi occupo di comunicazione per il non-profit. Ho partecipato come observer alla COP 27 e alla COP28. Mi occupo di attualità, di diritti umani e di giustizia climatica. Aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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