Buone Notizie ha intervistato Barbara Schiavulli, giornalista di guerra e direttrice di radiobullets.com, il podcast di notizie dal mondo. Con Barbara abbiamo cercato di riflettere su quale può essere il modo corretto di raccontare la guerra. Un tema che abbiamo scelto di raccontarvi proprio oggi: in occasione della Giornata dell’informazione nazionale costruttiva 2022.

Come si racconta la guerra? C’è un modo giusto di farlo?

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Ci sono diversi modi per raccontare la guerra. Si può dare notizia delle battaglie, della diplomazia, della politica, della geopolitica, si possono ascoltare i militari o i militanti. Poi c’è chi invece, come me, preferisce raccontare i civili che subiscono la guerra, quindi le storie. Si può partire dalle micro storie per raccontare poi gli eventi più grandi e per far capire quanto la guerra in realtà sia un male verso i civili. L’unico modo per fare questo è essere indipendenti. Secondo me si dovrebbe fare un giornalismo di giustizia poiché non dovrebbe rimanere impunito chi scatena un conflitto.

Come i giornalisti italiani stanno narrando la guerra in Ucraina?

Ci sono giornalisti molto bravi che stanno facendo un lavoro fatto molto bene. Ci sono invece dei “giornalisti da Costa Concordia”, quelli che vanno solo per farsi selfie e che magari, anche in buona fede, possono essere vittime della propaganda. Purtroppo per la gente in questo marasma di notizie è difficile capire di quali notizie fidarsi. Per questo, secondo me, si dovrebbe insegnare già nelle scuole come leggere i giornali, come ascoltare una notizia, come capirla e come difendersi dalle fake news.

Quanto sono importanti le fonti anche in tempo di guerra, dove a volte non c’è tempo di verificare una notizia o la fonte da cui proviene?

Le fonti sono importantissime per il lavoro del giornalista, perché se la fonte non è attendibile non si dà la notizia. I giornalisti competenti devono sempre verificare le notizie e devono avere delle persone di cui si fidano. Chi fa questo mestiere da diversi anni capisce se la fonte si sta inventando una cosa o se sta dando una notizia falsa. Essere sul posto aiuta molto nel raccontare la guerra, di sicuro il giornalismo da scrivania non aiuta a contrastare le fake news.

Il 19 aprile l’Ordine nazionale dei giornalisti ha diffuso una nota in cui si invitano i cronisti a evitare di cadere nello show dell’orrore. Si deve per forza scioccare per raccontare il conflitto?

La guerra si può raccontare anche attraverso i dettagli, anche attraverso immagini che a volte sono più forti. Sicuramente non serve mostrare cadaveri ogni giorno per far sapere che in guerra si muore. Purtroppo nel racconto della guerra in Ucraina sta succedendo proprio questo, forse perché c’è fretta di raccontare la guerra e di riempire le pagine dei giornali e i palinsesti dei canali all news.

Oltre alla deontologia, anche la Convenzione di Ginevra vieta le interviste ai prigionieri di guerra, eppure le dichiarazioni dei militari russi prigionieri di guerra sono state pubblicate da importanti testate italiane. Non si rischia di polarizzare le opinioni?

La pubblicazione di interviste a prigionieri di guerra è propaganda pura e semplice. Ai prigionieri viene forzata la possibilità di parlare e sicuramente diranno quello che i carcerieri vogliono che dicano. I giornalisti non devono essere quindi il microfono o l’altoparlante di quello che una parte vuole che si sappia. Questo è avvenuto anche in altri Paesi, ad esempio in Pakistan o in Iraq. È più corretto intervistare invece il parente di un prigioniero che è libero di poter parlare. Le interviste ai prigionieri rischiano di polarizzare le opinioni perché amplificano la propaganda. Il compito del giornalista è smontare la propaganda e non diffonderla.

Che impatto ha la concentrazione dei giornalisti sulla guerra in Ucraina dal punto di vista degli altri conflitti (o “post” conflitti da monitorare): c’è il rischio di scadere nell’esclusivismo del “conflitto che va più di moda”? Quanto è importante narrare anche il “dopo”?

L’Ucraina è facile da raggiungere rispetto ad altri posti. Inoltre, all’inizio di un conflitto ci sono sempre tanti giornalisti, per esempio al principio della guerra in Iraq c’erano almeno mille giornalisti così come in Afghanistan, in Pakistan, in Tagikistan. Le guerre non si sa quanto durano, non ci sono più guerre lampo, quindi se la guerra continua non saranno lì per sempre. Questo affollamento è solo il primo momento, ma poi sono pochi i giornalisti che restano per seguire un conflitto.

Continuare a raccontare anche il dopo è importante perché tutto quello che accade supera i confini. Le guerre, così come le malattie, si ripercuotono in tutto il mondo. Ma spesso alcuni conflitti non vanno più di moda, sicuramente un ruolo importante lo svolge la propaganda. Nessuno parla più del conflitto in Siria che è in guerra da 11 anni, così come di quello in Yemen,  in Afghanistan e in Palestina. È importante e sarebbe bello se riuscissimo a raccontare anche i post conflitti, le cose buone e le ricostruzioni.

 

Questo articolo è stato scritto per la Giornata Nazionale dell’Informazione Costruttiva 2022

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Aurora Amendolagine

Aurora Amendolagine

Aurora Amendolagine, laureata in Scienze politiche e Relazioni internazionali con un Master in Comunicazione istituzionale. Lavoro in Rai da diversi anni. Giornalista pubblicista e tutor del laboratorio di giornalismo per diventare pubblicista

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