Le prime esperienze di cohousing, letteralmente coresidenza, nacquero in Svezia intorno agli anni ’30 con il modello kollektivhus – alloggi collettivi -. I progetti del vivere insieme vennero poi ripresi negli anni ’60 del secolo scorso in Danimarca dall’architetto Jan Gødmand Høyer che, con il termine bofaelleskabercomunità residenziali – intendeva descrivere nuove idee di abitare ricche di relazioni di buon vicinato.

Le prime strutture di cohousing sono ravvisabili in Italia dall’inizio degli anni Duemila. Nuove forme di socialità e di vicinato attivo stanno oggi diventando argomento di grande interesse, soprattutto dopo l’imposizione di distanziamento sociale del periodo pandemico e dal crescente numero di famiglie mononucleari.

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Il cohousing è un modello abitativo che assottiglia il confine tra privato e pubblico senza che l’uno invada mai gli spazi dell’altro. Nuovi equilibri tra privacy e collaborazione, tra interno ed esterno, tra separazione e condivisione. Un interesse verso stili di vita più sostenibili non solo a livello energetico e ambientale, ma anche a livello sociale.

Cohousing in Italia: a che punto siamo?

L’Italia è ancora un po’ indietro rispetto ai Paesi nordici. Da vivace sostenitore dell’indipendenza, il Nord Europa ha recuperato già da tempo le virtù della connessione, della relazione e dei legami. Il 23 marzo 2018 è stata presentata dalla Camera dei Deputati una proposta di legge per il riconoscimento e la disciplina delle “comunità intenzionali”.

“Le “comunità di vita” rappresentano una delle forme più  antiche di aggregazione umana e possono costituire importanti laboratori di sperimentazione sociale nel mondo attuale […]. In questo tipo di comunità si sviluppano processi compensativi che permettono di ammortizzare tra più persone costi e difficoltà insostenibili per un solo nucleo familiare. Allo stesso tempo, si attivano circoli virtuosi a livello ambientale, quali la riduzione dei consumi energetici, grazie al ricorso alle energie rinnovabili”.

L’affermazione quindi dell’esistenza di un modello di sostenibilità sociale e di una ferma volontà di concretezza. La valorizzazione di quelle comunità che si riuniscono intenzionalmente per conseguire scopi non trascurabili come la tutela, il recupero e la valorizzazione di aree e infrastrutture spesso dismesse. Una presa di posizione tangibile verso tutte quelle persone che vogliono vivere in un contesto abitativo partecipativo perché consce che, molte volte, solo insieme si può sopperire alla solitudine e alle difficoltà economiche.

In questo tipo di comunità si sviluppano processi compensativi che permettono di ammortizzare tra più persone costi e difficoltà insostenibili per un solo nucleo familiare e, allo stesso tempo, si attivano circoli virtuosi a livello ambientale, quali la riduzione dei consumi energetici, grazie al ricorso alle energie rinnovabili”.

A livello regionale e comunale, alcune amministrazioni riconoscono i modelli di cohousing: Porto 15 a Bologna, Urban Village Bovisa a Milano, COhlonia a Pisa, Smart Up a Bolzano e la Corte dei Girasoli a Vimercate, offrono la concreta possibilità di usufruire di spazi comuni che da soli non si sarebbero potuti avere e hanno spinto gli italiani verso un cambiamento interiore, sociale e relazionale. Un innovativo e reale cambio di prospettiva del senso comune e dell’abitare che va oltre i legami di sangue e che fa vivere un’esperienza allargata di collaborazione e partecipazione.

Cohousing: un modello abitativo di sostenibilità sociale

Nuclei famigliari diversi per tipo di provenienza sociale, interessi o età, scelgono di abitare vicini collaborando fra loro. Dotati ognuno di un appartamento privato, godono nel contempo di spazi comuni molto più ampi di quelli presenti nei condomini. Babysitter, badanti condivise, piscine, palestre, orti sinergici, lavanderie, sale giochi e ambienti condivisi che possano ospitare differenti generazioni sotto tetti vicini.

Gli aspetti centrali di questo modello abitativo sono la collaborazione e l’armonia tra la dimensione privata e quella pubblica. La condivisione prende il posto dell’indifferenza e dei confini che dividono. La collaborazione salva dalla solitudine e dalla sensazione di non poter far affidamento sugli altri. Chiara Casotti, progettista sociale e residente presso il cohousing Montesole situato nelle colline torinesi, descrive così l’esperienza del vivere comune:

“Un equilibrio che si esprime dalla concretezza degli spazi, dal modo in cui questi vengono delimitati e co-progettati […], di come un edificio può disegnare una fitta rete di possibilità, una fisarmonica di vicinanze e distanze, di suoni e di pause, che passano attraverso le vetrate, i ballatoi, le dispense e le lavanderie”.

Nessun atteggiamento è obbligatorio. I residenti possono liberamente scegliere se e quando condividere esperienze di vita quotidiana. Evidentemente, chi decide di entrare a far parte di una comunità come quella del cohousing deve avere l’ impegno di mettersi in gioco per il raggiungimento di obiettivi condivisi.

Il cohousing diventa quindi una modalità del vivere insieme ricercata da chi ha il desiderio di intraprendere azioni utili non solo per se stesso. Un progetto di vita insieme dove le difficoltà si attenuano e, il più delle volte, le risorse si moltiplicano.

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Florinda Ambrogio

Florinda Ambrogio

Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche con specializzazione in Scienze Forensi, amo la cronaca tanto quanto la narrativa. Da sempre impegnata per portare l'attenzione sui sempre attuali temi della crescita personale. Il cassetto mi piace riempirlo fino all'orlo di sogni che sostituisco non appena diventano realtà. Aperta al cambiamento solo se porta a migliorare.

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