Connettersi con i cicli della natura, entrare in relazione con i compagni di cella con una modalità differente da quella che è la quotidianità, dimenticarsi per qualche ora del cemento e delle sbarre, evadere mentalmente e riassaporare un po’ della libertà perduta è quello che alcuni detenuti possono fare all’interno delle carceri grazie all’agricoltura sociale, un progetto collaborativo, sostenibile e di inclusione utilizzato come strumento educativo.

Nel 1975, con la riforma dell’ordinamento penitenziario si è affermato il diritto al lavoro dei detenuti, lavoro che deve essere remunerato. Per i soggetti svantaggiati però, oltre alla gratificazione economica, è importante fare qualcosa che abbia davvero un senso, che li faccia sentire realmente utili, che permetta a ognuno di avere uno scopo.

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Secondo i dati DAP, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati al 30 giugno 2022, le persone detenute negli istituti di pena sono più di 62.000, a fronte di una capienza regolamentare di 50.000 posti, con un tasso di affollamento ufficiale che in alcune aree supera il 120%.

Tra il secondo semestre del 2019 e il primo del 2020, sempre dati pubblicati dal DAP, si era registrato un calo del 70% del numero di iscritti ai corsi professionali attivati in carcere, passando da oltre 2.000 partecipanti a poco meno di 800. Nel tentativo di ristabilire situazioni di normalità e di umanità e per evitare che il disagio da individuale possa, un domani, diventare sociale, qualcosa di positivo si sta verificando.

Progetti in sinergia con la natura

Il ruolo della formazione professionale nelle carceri è uno strumento efficace sia per l’ingresso nel mondo del lavoro che per la riduzione delle recidive, con un positivo impatto sulla collettività. A confermarlo è una ricerca del febbraio 2023 effettuata dal Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e pubblicata dal Sole 24 Ore: “2% è il tasso di recidiva tra i 18.654 detenuti che hanno un contratto di lavoro, 68,7% è il tasso complessivo medio stimato su una popolazione carceraria che si attesta a 56.107, confermando in questo modo lo strumento del lavoro come il più efficace per centrare l’obiettivo della sicurezza sociale“.

Oltre ai prodotti di artigianato come manufatti di riciclo e alimenti confezionati, che sono entrati da tempo a far parte dell’economia solidale, sta crescendo, all’interno delle mura delle prigioni, la passione per l’agricoltura.

Vedendo crescere delle piante alle quali si hanno destinato cure e attenzioni, si è anche incoraggiati a provare gratitudine e pazienza nei confronti di qualcosa che altro da sé e di cui si è responsabili. “Le piante ti aprono la testa. Venire in serra, trafficare nella lamponaia è un distacco dal cemento. Siamo incementati anche durante l’ora d’aria. In mezzo alla natura invece respiriamo“, raccontano i detenuti della casa circondariale di Viterbo in un’intervista rilasciata al mensile Terra Nuova.

Reinserimento lavorativo. Il ruolo delle cooperative sociali

L’idea di impegnarsi all’interno di un penitenziario è nata per dare respiro a un sistema dove, a causa del sovraffollamento, non sempre si riesce a garantire ai detenuti un autentico percorso di reintegrazione. Il lavoro agricolo all’interno delle carceri va a colmare le carenze della riabilitazione delle persone svantaggiate unendo, nel contempo, inclusione sociale e tecniche di produzione biologiche che permettono di recuperare terre marginali o sottratte alla criminalità organizzata.

Numerose sono le cooperative che, grazie anche all’aiuto di volontari provenienti dal servizio civile nazionale e da ex detenuti, sono impegnate nella formazione di persone in situazioni di fragilità. Insieme riescono a sviluppare azioni sostenibili sia per la società che per l’ambiente, realizzando filiere di produzione etiche guidate da principi di inclusione e dignità grazie al lavoro nei campi.

Con la cooperativa sociale “L’uomo e il legno”, all’interno del carcere di Secondigliano a Napoli , ad esempio, è nata un’impresa agricola: grazie al progetto “campoAperto” vengono sfruttati gli spazi inutilizzati dati in comodato d’uso dal Ministero di Grazia e Giustizia dando, in questo modo, la possibilità di fornire un impegno stabile ai detenuti e una formazione professionale in vista di un reinserimento nella società.

Nel carcere femminile della Giudecca a Venezia, alcune donne hanno scelto di occupare il loro tempo nell’orto dell’istituto gestito dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. In questi seimila metri quadri si coltiva un po’ di tutto, rigorosamente senza l’utilizzo di sostanze chimiche. Il risultato del lavoro delle detenute viene in parte utilizzato nella mensa del carcere, altro viene venduto ad un mercatino che le stesse detenute gestiscono, e altro ancora viene distribuito ai gruppi solidali della zona.

La cooperativa “O.r.t.o”, nel carcere di Viterbo, con il progetto Semi liberi organizza percorsi di formazione in serra e in campo aperto, arrivando a distribuire i prodotti su scala locale per negozi di alimentazione bio e ristoranti.

Molte sono le cooperative sociali in Italia che contribuiscono, grazie a numerosi altri corsi di formazione, a tenere lontani i detenuti dall’apatia, dall’isolamento psicologico e dalla depressione dovuta alla reclusione.

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Florinda Ambrogio

Florinda Ambrogio

Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche con specializzazione in Scienze Forensi, amo la cronaca tanto quanto la narrativa. Da sempre impegnata per portare l'attenzione sui sempre attuali temi della crescita personale. Il cassetto mi piace riempirlo fino all'orlo di sogni che sostituisco non appena diventano realtà. Aperta al cambiamento solo se porta a migliorare.

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