Il 19 giugno le Nazioni Unite (ONU) hanno ratificato il Trattato per la protezione dell’alto mare. L’adozione formale del testo già approvato a marzo rappresenta un importante passo avanti nell’acquisizione del primo strumento giuridicamente vincolante nella gestione di quello che è sempre stato considerato una “terra di nessuno”.

Il Trattato stabilisce infatti che tutte le acque internazionali saranno soggette a regolamentazione. In questo modo, sarà possibile porre sotto controllo il 64% degli oceani e quasi il 50% della superficie della Terra. L’alto mare corrisponde infatti a tutte le acque oltre le 200 miglia nautiche dalle coste: un’area sconfinata sempre più esposta al rischio di sfruttamento indiscriminato.

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Gli obiettivi del Trattato per la protezione dell’alto mare

Ad oggi, le problematiche principali che toccano da vicino l’alto mare sono pesca incontrollata, scarico di rifiuti ed estrazione di risorse. In particolare, con l’avanzare della tecnologia è diventato più facile accedere alle acque internazionali per estrarre minerali o risorse alimentari, necessarie alla produzione delle grandi industrie.

Il testo del Trattato si sviluppa lungo 75 articoli, che coprono tutte le aree di attività umana negli oceani. Il documento è strutturato intorno ad alcuni obiettivi principali: lotta all’inquinamento, gestione sostenibile degli stock ittici, contenimento degli effetti della crisi climatica e dell’acidificazione delle acque, istituzione di aree marine protette (ad oggi soltanto l’1,2% degli oceani è posto sotto tutela).

Lotta all’inquinamento delle acque e degli ecosistemi

Il Trattato prevede di contrastare le varie forme di inquinamento in alto mare. Ogni anni si riversano infatti negli ecosistemi marini e costieri sostanze chimiche tossiche e milioni di tonnellate di rifiuti, principalmente plastiche. Queste non sono dannose soltanto per le specie che popolano gli habitat marini, ma anche per l’uomo. I rifiuti infatti finiscono spesso per essere ingeriti da uccelli, mammiferi marini e dai pesci che arrivano sulle nostre tavole.

Nel 2021, oltre 17 milioni di tonnellate di plastica sono entrate negli oceani del mondo, costituendo l’85% dei rifiuti marini. L’ONU ha stimato inoltre che entro il 2050, se non si interviene, potrebbe esserci più plastica in mare che pesci.

Per contrastare l’inquinamento dei mari da plastiche già nel 2017 le Nazioni Unite hanno lanciato, in occasione dell’Economist World Ocean Summit di Bali, la campagna Clean Seas. L’iniziativa coinvolge governi e aziende e li esorta a varare politiche di riduzione della plastica, riducendo al minimo gli imballaggi in plastica o riprogettando i prodotti. Ad oggi, 69 Paesi hanno aderito, rendendo la Campagna Clean Seas la più grande e potente coalizione globale dedicata a porre fine all’inquinamento marino da plastica.

Per assicurare il rispetto del Trattato per la protezione dell’alto mare, sarà inoltre resa obbligatoria la consegna di report contenenti le valutazioni di impatto ambientale per ogni attività. In tal senso, il documento contiene disposizioni basate sul principio “chi inquina paga”, nonché meccanismi per le controversie.

La tutela dell’alto mare richiede il riconoscimento e la protezione dei diritti delle comunità indigene

Per contrastare gli effetti della crisi climatica, il Trattato per la protezione dell’alto mare offre una guida per sostenere la resilienza degli ecosistemi. Per conseguire questo obiettivo, il documento prevede il coinvolgimento delle popolazioni indigene, riconoscendo il diritto a un ambiente sano e il valore delle tradizioni culturali delle popolazioni locali.

La questione dei diritti alle comunità indigene dovrebbe in particolare avere una ricaduta sullo sfruttamento delle risorse. Infatti, l’alto mare può essere considerato un’area che appartiene a tutti, e per questo i benefici che comporta dovrebbero essere condivisi.

Un esempio sono le risorse genetiche marine, sempre più utilizzate nella ricerca farmaceutica e cosmetica. Fino ad ora solo i Paesi che potevano permettersi spedizioni di questo tipo potevano trarre vantaggio da questa ricchezza. Con l’introduzione del trattato, i benefici andrebbero condivisi anche gli Stati insulari o in via di sviluppo dell’area.

Per entrare in vigore, il Trattato sulla protezione dell’alto mare ora andrà sottoscritto da almeno 60 Paesi appartenenti all’ONU. La differenza poi la farà la capacità di questi Paesi di implementarne le funzioni. Nonostante i dubbi espressi a marzo da una parte della società civile, la ratifica di questo trattato storico è avvenuta in tempi relativamente brevi. La comunità internazionale si avvia ad avere gli strumenti per operare e prendere decisioni al di fuori dei confini giuridici dei singoli Stati.

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Giovanni Beber

Giovanni Beber

Giovanni Beber. Studio Filosofia e Linguaggi della Modernità presso l'Università di Trento e sono il responsabile della comunicazione di un centro giovanile a Rovereto. Collaboro con alcuni blog e riviste. Mi occupo di sostenibilità, ambientale e sociale e di economia e sviluppo.

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