Quello dei crimini di guerra è un argomento complesso, in quanto la natura stessa dei conflitti implica – per definizione – il ferimento o l’uccisione di esseri umani. In senso generico, si parla di crimini di guerra a proposito di azioni che non rientrano in una logica di difesa, ineludibile, nei confronti di un’aggressione. Oggi si tende spesso ad associare tale concetto alle violenze pianificate ed effettuate su larga scala – ad esempio, le rappresaglie contro le popolazioni inermi. Ciò nonostante, da un punto di vista giuridico si tratta di qualcosa di ben più articolato.

In base a quanto emerge dal dramma dell’Ucraina, i protagonisti dei conflitti, nell’era dei social, dispongono di un’“arma” inedita rispetto al passato. Tale arma sono le videotestimonianze da diffondere in rete in tempo reale. In molti casi, la Corte penale internazionale dell’Aia ha preso in esame documenti di questo tipo, per indagare sui crimini di guerra commessi nel mondo. Tuttavia – in un’epoca contraddistinta dalla manipolazione digitale, spesso sofisticata –, come si fa ad appurare l’autenticità di quei documenti? Una accurata verifica delle fonti è infatti essenziale per garantire – davanti all’opinione pubblica – la legittimità giuridica di tali indagini.

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Cosa si intende con l’espressione crimini di guerra

Dal punto di vista legale, i crimini di guerra sono gravi violazioni delle norme che disciplinano i conflitti tra i Paesi. Lo Statuto di Roma del 1998 – che istituì la Corte penale internazionale – indica due categorie di crimini di guerra. Alla prima appartengono le violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949. Alcuni esempi sono i trattamenti inumani, la distruzione o l’appropriazione arbitraria di beni, le violenze contro i prigionieri di guerra.

Nella seconda categoria rientrano altri atti classificati come violazioni in sede di diritto internazionale. Tra le principali si possono annoverare gli attacchi intenzionali contro i civili, gli edifici di culto, gli ospedali o i mezzi delle missioni di soccorso. Inoltre, vi si possono includere anche l’uso di armi biologiche, gli abusi sessuali e le deportazioni dalle terre invase.

Alla luce di quanto detto, i crimini di guerra rappresentano un attentato ai valori fondanti della comunità internazionale. Quando si accusa un individuo di azioni di questo genere, egli può subire un processo non solo nel proprio Paese, ma anche presso specifici tribunali internazionali. Esempi celebri sono stati il tribunale di Norimberga, o quelli della ex Jugoslavia e del Ruanda. Tali corti, istituite con appositi trattati, oggi non sono più in attività. Al contrario, la già citata Corte penale internazionale – con sede all’Aia, nei Paesi Bassi – è un’istituzione permanente. Entrata in funzione il 1º luglio del 2002, essa ha preso in carico i processi per i crimini di guerra compiuti a partire da tale data.

L’uso delle tecnologie digitali e la verifica delle fonti

Il 2013 è stato l’anno in cui la Corte penale internazionale è ricorsa, per la prima volta, al supporto massiccio di prove visive digitali. L’occasione fu il processo a un jihadista del Mali – Ahmad Al Faqi Al Mahdi –, che aveva fatto distruggere santuari e moschee a Timbuctù, tutti patrimonio dell’UNESCO. Si noti che – accanto ai filmati prodotti dai media – una parte dei video incriminanti fosse stata girata dagli stessi uomini di Al Mahdi.

Prima di allora, le indagini dei tribunali internazionali si erano basate, in gran parte, sulle testimonianze e sulle analisi forensi effettuate nei luoghi dei crimini. A partire dal caso sopracitato, in queste sedi si è iniziato ad accettare immagini satellitari, video di cellulari o altre fonti digitali che potessero supportare prove di altra natura.

Tuttavia – con il diffondersi di strumenti avanzati di editing video e di intelligenza artificiale –, è impossibile non porsi il problema riguardante la verifica delle fonti. In che modo si possono distinguere le immagini reali da quelle create ad arte? Se si vuole esser garanti del diritto internazionale, una rigorosa verifica delle fonti è imprescindibile.

Tale questione è stata sollevata dal Centro per i diritti umani della Berkeley School of Law (presso l’Università della California). Nel 2022, esso ha pubblicato una guida destinata a investigatori, avvocati e giudici dei tribunali internazionali – il cosiddetto “Protocollo di Berkeley”. L’obiettivo del testo è quello di codificare gli standard di rilevanza delle prove digitali sul piano giuridico.

Crimini di guerra e verifica delle fonti

Le prove visive digitali sono importanti nelle indagini sui crimini di guerra. Una accurata verifica delle fonti è tuttavia necessaria. Fonte: Unsplash

Indagare sui crimini di guerra oggi

Nel momento attuale, la Corte penale internazionale sta usando il “Protocollo di Berkeley” nelle indagini sui crimini commessi nella guerra in Ucraina. L’iter previsto dalla guida è piuttosto elaborato, e spesso gli inquirenti devono affrettarsi a scaricare i contenuti digitali, prima che qualcuno li cancelli. Dopodiché è necessario stabilire la provenienza del materiale, partendo dal momento e dal luogo in cui un video è stato girato, fino al momento della sua acquisizione.

A tale scopo, gli analisti vanno in cerca di punti di riferimento che siano presenti in altre immagini. Un esempio possono essere gli edifici, alcuni particolari tipi di alberi o i cartelli stradali. Un ulteriore strumento per individuare i luoghi mostrati nei video sono le immagini satellitari – mentre per altri particolari gli analisti ricorrono ai software per il riconoscimento facciale.

Proprio il conflitto in Ucraina, del resto, evidenzia come qualsiasi internauta possa essere in grado di filmare – rendendole pubbliche – le atrocità della guerra. Ciò rende auspicabile un futuro in cui i crimini debbano fare i conti con un’alleanza morale tra i singoli individui e le istituzioni internazionali.

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Edoardo Monti

Edoardo Monti

Ho lavorato per anni come freelance nell'editoria, collaborando con case editrici come Armando Editore e Astrolabio-Ubaldini. Nel 2017 ho iniziato a scrivere recensioni per Leggere:tutti, mensile del Libro e della Lettura, e dal 2020 sono tra i soci dell'omonima cooperativa divenuta proprietaria della rivista.

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