Il 3 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato la proposta di legge costituzionale finalizzata all’introduzione del cosiddetto “premierato”, ossia l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Secondo l’attuale maggioranza, la riforma costituzionale ha come obiettivo principale quello di rafforzare la stabilità dei Governi, ma non solo. Essa intende anche valorizzare il ruolo degli elettori, favorire l’unità degli schieramenti elettorali e, infine, porre un argine al fenomeno del trasformismo. Ma cosa si intende esattamente per premierato? Quali sono le differenze rispetto al presidenzialismo e al sistema parlamentare puro attualmente in vigore?
Il “premierato” spiegato in cinque punti
Nel comunicato pubblicato dal Governo si legge che la riforma intende operare “su cinque versanti”. Innanzitutto dando la libertà agli elettori di eleggere direttamente il presidente del Consiglio. Quest’ultimo, secondo la riforma, deve essere necessariamente un parlamentare eletto nella Camera per la quale è stato candidato. Attualmente invece non è prevista alcuna norma di questo genere.
La riforma prevede, inoltre, che il mandato conferito dagli elettori duri cinque anni, al fine di favorire la stabilità dell’esecutivo. Il presidente eletto può essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza, a condizione che dia continuità all’indirizzo politico del predecessore.
Per permettere la governabilità del Paese occorre però intervenire anche sulla legge elettorale. La riforma costituzionale “affida alla legge la determinazione di un sistema elettorale” che preveda un premio di maggioranza che assicuri al partito o alla coalizione collegata al presidente del Consiglio, il 55% dei seggi parlamentari.
La legge elettorale attuale, invece, non prevede alcun tipo di maggioranza, costringendo dei partiti spesso eterogenei a coalizzarsi. Infine, la proposta prevede lo stop alla nomina dei senatori a vita. In questo gruppo confluiranno solamente i presidenti della Repubblica emeriti.
Differenze con il sistema presidenziale…
La strada che ha portato Giorgia Meloni e l’attuale Governo a proporre il premierato, va nella direzione di riformare nella continuità. A precisarlo è lo stesso comunicato emesso da Palazzo Chigi. A conclusione della nota, infatti, si legge che il testo di riforma si è mosso in continuità con “la tradizione costituzionale e parlamentare italiana”. Avendo particolare riguardo nel “preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, figura chiave dell’unità nazionale”.
Una continuità fortemente voluta, giacché l’elemento discriminante con il sistema presidenziale ruota proprio sui compiti del presidente della Repubblica. Nei sistemi presidenziali, infatti, quest’ultimo è sia capo dello Stato che del Governo. Ed è il motivo per il quale, fra l’altro, è eletto direttamente dagli elettori. Con una conseguenza ulteriore, però, che pone qualche problematica.
Problematica che consiste nella scomparsa, all’interno dell’ordinamento presidenziale, di una figura di garanzia terza ed imparziale (con tutti i rischi del caso). Nel sistema presidenziale, quest’ultima figura viene infatti a coincidere con il titolare dell’indirizzo politico, che ha il dovere di “non essere” imparziale, pur governando nell’interesse di tutti i cittadini.
… e con il regime parlamentare
Un discorso diametralmente opposto riguarda invece il sistema attualmente in vigore in Italia, ossia il regime parlamentare. Il titolare del potere esecutivo, in questo sistema, è nominato dal presidente della Repubblica. Quest’ultimo ricopre una funzione di garanzia ed esercita il suo potere di nomina del presidente del Consiglio sulla base della maggioranza formatasi in Parlamento.
L’elemento che caratterizza il sistema parlamentare è dato dunque dal rapporto fiduciario che intercorre tra il Governo e il Parlamento. Se sfiduciato da quest’ultimo, il presidente del Consiglio è tenuto infatti a dare le dimissioni. In questo regime costituzionale, che tende a premiare la rappresentatività delle diverse voci in campo, gioca un ruolo chiave la legge elettorale. Una buona legge elettorale aspira a favorire la governabilità, sia pur nel rispetto del pluralismo politico presente in Parlamento.
Governabilità e stabilità politica: le sfide del premierato
Eppure il sistema istituzionale italiano si è da sempre scontrato con una realtà assai difficile e turbolenta, in fatto di governabilità. “L’instabilità dei governi – scrive Gianluca Passarelli, associato di Scienza Politica presso La Sapienza di Roma – è stata la cifra distintiva della Repubblica sia nel primo periodo […] che dopo il 1994” (Libertaeguale.it, Ingovernabilità: l’unica costante italiana dal 1948). Se nella Prima Repubblica la durata media di un esecutivo si aggirava attorno agli undici mesi, nella Seconda la longevità media è di poco aumentata, sia pur a fronte di una semplificazione del quadro politico.
La proposta avanzata dal Governo di Giorgia Meloni deve essere letta all’interno di questo quadro storico-istituzionale. Occorre anche ricordare che prima del Governo Meloni, a riformare la Costituzione ci aveva già provato nel 2016 l’esecutivo guidato da Matteo Renzi. In quel caso, però, non era in discussione il ruolo del Presidente del Consiglio, ma quello del Parlamento: in particolar modo del Senato, di cui si proponeva una radicale riforma.
Lo snellimento della burocrazia, la semplificazione dell’iter legislativo e la garanzia di avere governi certi e stabili nel medio-lungo periodo costituiscono degli aspetti di cui difficilmente l’Italia può ormai fare a meno. La prudenza politica consiglia però di riuscire a calibrare delle legittime aspirazioni, alla luce di pesi e contrappesi istituzionali, che impediscano alle istituzioni di divenire “proprietà” delle maggioranze politiche di turno.