Il conflitto israelo-palestinese ci sta mettendo davanti a un problema che, di fatto, non ha nulla di nuovo e con cui ci siamo già trovati faccia a faccia in occasione della guerra in Ucraina (giusto per citare il caso più eclatante e più recente).

Considerando che oggi l’informazione tende a scavalcare la cornice dei media tradizionali e a innervarsi anche nel mondo dei social e – più in generale – nella sfera policentrica della rete, il panorama che abbiamo sott’occhio è piuttosto ampio ma anche molto univoco.

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Semplificando, possiamo dire che – così come in altri casi – del conflitto israelo-palestinese si sta tenendo a dare una visione fortemente polarizzata. Con una pericolosa assenza di neutralità, con la tendenza a sviluppare un modo di fare informazione che non lavora in vista di una soluzione del conflitto ma (al contrario) tende ad alimentarlo. E a riverberarlo anche su lettori sempre più divisi e sempre meno consapevoli.

Chi ci segue, sa che – da anni – continuiamo a dire che le notizie hanno un impatto significativo sulla società. Che generano una visione la quale, a sua volta, genera delle azioni. O delle non-azioni.

Proprio per questo motivo, crediamo che sia fondamentale cercare di raccontare la guerra in modo diverso. Come? Ribaltando la prospettiva e spostando il focus dall’esigenza di fare il boom di visualizzazioni a una necessità duplice e molto più vitale: far sì che i fruitori delle notizie siano lettori più informati e più consapevoli, da una parte, e cercare di collaborare in modo attivo alla possibile risoluzione dei conflitti. Non solo della guerra israelo-palestinese.

Il giornalismo deve informare. Deve aiutare il lettore a mettere a fuoco il contesto in cui si è sviluppato il conflitto. Dobbiamo aiutare chi ci segue a comprendere in modo lucido e neutrale quali sono le ragioni delle parti in causa (di tutte le parti in causa). Il giornalismo deve combattere le fake news, che in guerra tendono a moltiplicarsi all’infinito. Deve portare alla ribalta le domande che possono aiutare a costruire la pace, dando voce alle soluzioni possibili. Deve seguire le notizie anche al di fuori del “normale”ciclo della notizia, andando a indagare anche i problemi e le soluzioni che rendono così complessi gli scenari post bellici (o pre bellici). Perché la guerra non coincide solo con il conflitto armato in sé ma ha anche un prima e un dopo.

C’è davvero moltissimo che possiamo fare e molto lo si sta già facendo. Basti pensare a una delle correnti che compongono la composita galassia del giornalismo costruttivo, cioè il peace journalism (che non a caso si chiama “giornalismo di pace” anche se parla di guerra). Con questa inchiesta, abbiamo cercato di offrire un piccolo contributo a uno scenario dell’informazione che vorremmo poter cambiare. L’obiettivo che ci siamo proposti, in questo caso, è semplicemente quello di aiutare il lettore a capire meglio cosa sta succedendo. E anche a farsi qualche domandina in più.

Tutti gli articoli dell’inchiesta

Israele-Palestina: le principali tappe di un conflitto che affonda le radici nel tempo

Perché Hamas ha attaccato Israele?

Chi è Hamas, l’organizzazione terroristica politico-militare della Striscia di Gaza

Guerra e news: il giornalismo può amplificare i conflitti oppure aiutare a costruire la pace

I film e i libri che possono aiutarci a comprendere il conflitto arabo-israeliano

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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