Cervello e cuore sono gli elementi essenziali della neuroeducazione, un modello educativo che attinge dalle neuroscienze, cioè prende i risultati nel campo neuroscientifico trasformandoli in pratiche educative efficaci. Conoscere il funzionamento del cervello è fondamentale per la neuroeducazione, che ha lo scopo di rendere efficiente chi educa nel suo insegnamento. Quello della neuroeducazione è un modello interessante che parte dalla scuola ma si estende a tutta la società, con lo scopo di renderla migliore.

Prendersi cura di sé e degli altri

Anna Fores, docente di Filosofia e Scienze dell’Educazione all’Università di Barcellona, in un recente contributo al Festival di Pedagogia Viva ha affermato che “la vera rivoluzione consiste nel prendersi cura di noi stessi per poterci prendere cura degli altri.” Secondo Fores, “l’educatore non può prendersi cura e comprendere il suo alunno se non conosce quello che pensa, quindi il suo cervello.”

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Oltre alle competenze richieste come la conoscenza della sua materia, le strategie pedagogico-didattiche per coinvolgere gli studenti, le competenze tecnologiche, l’educatore è chiamato a conoscere il funzionamento del cervello. Una competenza che si regola su determinati principi: consapevolezza dell’unicità di ogni cervello, riconoscere le potenzialità di ogni studente e tirarle fuori (educare significa appunto tirare fuori), consapevolezza della neuroplasticità del cervello (capacità del cervello di cambiare la sua struttura nel tempo), memoria e attenzione per l’apprendimento.

L’educazione dunque passa per il cervello, il cuore e le mani, se si pensa alla realtà dell’Asilo nel bosco, un format educativo di scuola dell’infanzia nella natura”, ha affermato Fores, specificando che “perché un educatore conosca il cervello di un ragazzo è importante che gli trasmetta fiducia, elemento chiave per la neuroeducazione“.

Cuore e cervello: mettersi nei panni dell’altro

Secondo Gabriel Vásquez, sociologo dell’Università San Buenaventura di Medellin, costruire la fiducia in tempi di crisi, come quelli che stiamo affrontando, è una responsabilità, ma garantisce la sopravvivenza ed è la base della cooperazione tra le persone. Per conquistare la fiducia negli altri è indispensabile essere empatici, quindi mettersi nei panni degli altri.  L’empatia si realizza attraverso un ciclo di tre fasi: ascoltare attivamente l’altro (empatia cognitiva), essere consapevoli di quello che sente (empatia emotiva), essere al suo servizio (interesse empatico).

Per essere persone empatiche è fondamentale saper ascoltare:

  • non parlare quando l’altro parla
  • mostrare agli altri che li stiamo ascoltando con espressioni facciali e suoni verbali
  • ripetere quello che ha detto l’altra persona
  • porre domande che incoraggino nuove prospettive
  • generare uno spazio sicuro e di fiducia che promuova la crescita personale
  • conversare per appoggiare non per vincere nella discussione

Alla luce delle capacità di ascolto delle persone empatiche, l’empatia, che unisce cuore e cervello, si può definire, secondo Vásquez, come la base della solidarietà e della fiducia tra le persone. Gli elementi fondamentali della neuroeducazione, di cui cuore e cervello ne sono il binomio, non riguardano solo l’ambito educativo, ma si estendono dunque a tutta la società.

La morte, maestra del dono della vita

Un altro tema oggetto di dibattito nel mondo educativo e nelle discipline come la psicologia e la neuroeducazione è la morte, spesso considerata tabù per i più piccoli, che si cerca di “proteggere” per evitare la sofferenza. Per Daniel Lumera, biologo naturalista, docente di riferimento internazionale nell’area delle scienze del benessere, della qualità della vita e nella pratica della meditazione, bisogna fare esperienza della morte sin da piccoli, perché “insegna a comprendere il dono della vita e abitarla nel modo più sincero e autentico possibile.”

Bisogna rivolgersi alla morte come a una maestra, perché insegna i valori della vita, è importante accoglierla e non scacciarla. La morte è una grande maestra che ci insegna l’urgenza di amare e la necessità di vivere con intensità ogni istante e vivere con leggerezza“, ha dichiarato Lumera, citando anche un detto sufi, “dobbiamo trattenere al massimo 3 giorni i non detti, i sospesi, per poi provarli a risolverli comunicandoli. Pensate quanta leggerezza deriva dal non essere appesantiti dalle questioni irrisolte.” Per vivere bene e quindi con leggerezza è fondamentale comprendere l’importanza del noi, relazionandoci con cervello e cuore con gli altri e abbattendo l’individualità.

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Francesco Bia

Francesco Bia

Docente di lettere e aspirante pubblicista. Ho collaborato per sei anni con due settimanali locali scrivendo di attualità, cultura, spettacolo, cronaca e sport. Oggi collaboro con BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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