Ogni anno sempre meno giovani medici decidono di lavorare in pronto soccorso, secondo i dati analizzati dall’Osservatorio permanente di Simeu, la società italiana della medicina di emergenza e urgenza. Le borse di specializzazione ci sono, ma rimangono sempre più spesso non assegnate. Il tema della fuga dei medici dal pronto soccorso è uno di quelli più discussi quando si parla dei problemi del sistema sanitario nazionale.

Si sa che il pronto soccorso rappresenta una struttura portante dell’intero sistema, ma le condizioni lavorative estreme hanno portato sempre più professionisti sanitari ad abbandonarlo. La discussione ha riguardato prevalentemente le cause del problema, tuttavia ad oggi non sono state individuate soluzioni.

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Giovani medici e pronto soccorso: il percorso per diventare urgentista

Come si diventa medici di pronto soccorso? La formazione, per ricoprire un ruolo così fondamentale e delicato, è lunga e impegnativa. Dopo sei anni di studi e la laurea in medicina, i giovani medici che vogliono lavorare in pronto soccorso devono proseguire con il loro percorso formativo. Ogni anno si svolge un concorso nazionale per accedere alle specializzazioni mediche. Ne risulta una graduatoria sulla base della quale i candidati possono scegliere la specialità medica e la città in cui continuare a formarsi. Solo dopo altri 5 anni di lavoro-formazione come medici specializzandi si diventa a tutti gli effetti specialisti in emergenza urgenza.

Per cercare di sopperire alla carenza di professionisti in pronto soccorso negli ultimi anni i governi hanno progressivamente aumentato il numero di borse di specializzazione in emergenza e urgenza. Nell’arco di pochi anni le borse sono quasi decuplicate: si è passati dalle 130 del 2015, alle 855 del 2023. Di queste però, solo 266 (il 69%) sono risultati assegnati, con ben 4 scuole senza nessuna assegnazione.

Perché i giovani medici scappano dal pronto soccorso?

Il fenomeno della fuga dei medici dal pronto soccorso sta mettendo in seria difficoltà tutto il sistema sanitario nazionale. Tra le cause i ritmi di lavoro sempre più pesanti, anche a causa della carenza di personale. Il carico di lavoro rispetto ad altre specializzazioni è impari, inoltre i riconoscimenti sono pochi rispetto alle professioni ambulatoriali. La medicina d’urgenza è poi una delle poche in cui è difficile esercitare in libera professione, garantendosi, almeno ad un certo punto della carriera, una qualità di vita più accettabile.

A questo si aggiunge il problema della sicurezza sul luogo di lavoro. Secondo la federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), sono più di 3.000 all’anno gli episodi di violenza ed aggressioni che si verificano in pronto soccorso, anche se il dato reale è sicuramente molto più alto perché non tutti i casi vengono denunciati. Il 75% riguarda operatrici donne, dato preoccupante e che sicuramente non invoglia ad intraprendere questo percorso professionale in assenza di tutele.

Un po’ di proposte concrete per risolvere il problema

I vari governi che si sono avvicendati negli ultimi anni hanno risposto alla carenza di giovani medici in pronto soccorso cercando di aumentare il numero di professionisti abilitati a lavorare in PS. L’aumento delle borse di specializzazione, l’estensione dell’equipollenza della medicina d’urgenza anche ad altre specialità mediche e il ricorso a medici gettonisti, ossia assunti tramite cooperative per coprire un singolo turno e pagati “a gettone”, sono tutte misure volte a questo obiettivo. I risultati non sono però molto incoraggianti.

Quello che manca al momento è una buona appetibilità della medicina di emergenza urgenza. Aumentare i posti di lavoro serve a poco, se quel lavoro viene percepito come scarsamente attrattivo perché massacrante e privo del giusto riconoscimento. Una misura fondamentale per migliorare questo aspetto sarebbe l’inclusione del personale medico ed infermieristico dei pronto soccorso nei lavori considerati usuranti. Questo permetterebbe di aggiungere una serie di tutele come l’abbassamento dell’età pensionabile e un aumento degli stipendi, in linea con quanto avviene nel resto d’Europa.

Riforma del sistema di gestione dell’emergenza urgenza: i centri assistenza e urgenza (CAU)

In senso più ampio sarebbe poi necessaria una riforma del sistema di gestione dell’emergenza urgenza che abbia l’obiettivo di ridurre il carico di lavoro del pronto soccorso, migliorando il filtro territoriale.

L’Emilia Romagna è un esempio lodevole in questo ambito: infatti ha recentemente intrapreso un piano di riorganizzazione delle cure primarie territoriali e del sistema di emergenza-urgenza regionale. Parte fondamentale di questo piano è l’istituzione dei Centri assistenza e urgenza (CAU). Si tratta di strutture del territorio alla quale le persone possono rivolgersi 24h/24 per problemi di salute urgenti, ma non gravi. Una sorta di guardia medica potenziata, in grado di fornire più prestazioni, come l’esecuzione di un elettrocardiogramma o di medicazioni, diminuendo il numero degli accessi in pronto soccorso.

Entro la fine del 2023 è prevista l’apertura di 30 CAU su tutto il territorio regionale.

giovani medici in pronto soccorso

I centri di assistenza e urgenza (CAU) dell’Emilia Romagna. Credits: Servizio sanitario regionale dell’Emilia Romagna

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Caterina Poli

Caterina Poli

Medico Chirurgo con focus sulla salute materno-infantile. Credo in un tipo di informazione chiara e accessibile a tutti, ma sempre rigorosa. Amo parlare di salute, benessere e diritti. Collaboro con Buonenotizie e partecipo al laboratorio di giornalismo costruttivo.

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