La disabilità è spesso vista dalla società come un argomento tabù, un feticcio, una colpa da espiare o, al contrario, da compensare con lo sviluppo di abilità eccezionali. Questi bias sono particolarmente evidenti al cinema e in tv, dove le storie con al centro persone con disabilità sono ancora troppo poche e troppo stereotipate. Ma qualcosa sta cambiando, e l’Italia sta facendo la sua parte.

Disabilità nell’arte: breve excursus storico

In una società in cui le persone disabili sono da sempre una minoranza, la loro rappresentazione nel mondo dell’arte è stata quasi sempre appannaggio di artisti e artigiani non disabili. Da qui deriva la visione parziale, assolutizzante e abilista che ci portiamo in eredità fin dai tempi antichi. La disabilità anticamente rappresentava un problema per la società, che per progredire doveva contare sull’apporto di corpi conformi e performanti. Una persona che non era in grado di camminare, di vedere, di pensare in maniera conforme veniva considerata un peso ed esclusa. La nascita di un figlio con disabilità veniva considerata una disgrazia in qualunque ceto sociale, dal contadino al nobile. Per questo, fin dall’antichità, la disabilità nell’arte è quasi sempre stata associata a personaggi, caratteristiche e concetti negativi.

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La disabilità fisica, fin dall’antichità, è una “colpa” atavica da scontare, sviluppando caratteristiche eccezionali che la compensino e comporta l’esclusione da una società che premia i corpi atletici e produttivi. Persino Efesto, dio greco del fuoco e dell’artigianato, nato zoppo e per questo ripudiato da sua madre, si deve guadagnare il posto nell’Olimpo ed è descritto come un artigiano eccezionale ma un burbero, vendicativo, dalle maniere rozze.

La malattia mentale (anticamente bollata come “follia”) ha i volti mostruosi degli schizzi di Leonardo da Vinci, le visioni inquietanti di Hieronymus Bosch e la vivida crudeltà degli affreschi medievali che testimoniano l’utilizzo di persone con disabilità come giullari e buffoni di corte. Una tradizione dura a morire nei secoli, esauritasi con il circo dei freak del XIX secolo.

Riccardo III, il re con la gobba di Shakespeare, è uno dei villain più celebri del teatro elisabettiano. La descrizione che ci tramanda Thomas More è di un individuo “gobbo, zoppo, con un braccio e una mano rinsecchiti, con aspetto crudele e basso”. Nell’opera shakespeariana lui stesso si descrive come “plasmato da rozzi stampi, deforme, monco”.

La sua fisicità è un’esteriorizzazione della sua abiezione e crudeltà interiore. Si tratta però di un’esagerazione dettata da ragioni politiche, oltre che dalla disinformazione: Thomas More era solo un bambino alla morte di Riccardo III. Il ritrovamento dello scheletro del sovrano nel 2012 ha dimostrato che Riccardo III, pur soffrendo di una grave scoliosi, avrebbe comunque potuto nasconderla sotto gli imponenti abiti dell’epoca. La sua conformazione fisica inoltre non gli avrebbe precluso alcuna attività (tra cui combattere). Non ci sono prove nemmeno della sua crudeltà: i crimini che gli sono attribuiti sono il risultato di voci messe in giro nella successiva epoca Tudor. Non sarebbe dunque passato alla storia come “il crudele re gobbo” se non fosse stato per la damnatio memoriae perpetrata da detrattori illustri che esagerarono le sue peculiarità fisiche con un preciso intento denigratorio.

La stessa disabilità, due secoli dopo, assumerà tutt’altra connotazione quando Victor Hugo scriverà Notre Dame de Paris e consegnerà alla storia il personaggio di Quasimodo, “il gobbo di Notre Dame”. Il romanzo francese fu concepito in un’epoca in cui si cominciava a interrogarsi sulle conseguenze dell’esclusione sistematica delle persone non conformi dalla società.

Victor Hugo crea un personaggio con disabilità distante anni luce dal suo predecessore elisabettiano (per quanto non esente, ai nostri occhi contemporanei, da bias abilisti). Quasimodo ha sì un animo tormentato e apparentemente gretto, ma ciò è una conseguenza di come la società lo tratta, non una caratteristica congenita in lui. Nel romanzo il lettore scoprirà un personaggio in grado di amare e sacrificarsi per l’altro, al contrario del bello e ammirato Febo che, lui sì, cela un’anima malvagia dietro un aspetto apollineo.

Il Super-disabile: la disabilità al cinema

Con l’avvento del cinema la rappresentazione della disabilità si è evoluta, polarizzandosi però su due fronti opposti, che presentano entrambi numerose problematiche. La persona disabile è intrinsecamente malvagia (come Riccardo III) o, al contrario, iper-virtuosa, quasi un supereroe. Pensiamo ai personaggi di Pinguino e di Joker, entrambi avversari di Batman nell’universo fumettistico e cinematografico DC Comics.

Il Pinguino è deriso persino dai suoi “colleghi” criminali di Gotham per il suo aspetto fisico: di bassa statura, obeso e, nell’iconico film di Tim Burton del 1992 (Batman – Il ritorno, con Danny DeVito come interprete del personaggio), affetto da sindattilia. Emarginato dalla famiglia e cresciuto come un freak del circo, il Pinguino sviluppa un rancore e una sete di vendetta che lo porteranno a rivendicare con orgoglio il proprio essere freak (e malvagio): “Io non sono un essere umano, sono un animale a sangue freddo!“, esclama nel film.

Nel recente adattamento del 2019, valso a Joaquin Phoenix l’Oscar come miglior attore protagonista, Arthur Fleck/Joker è un personaggio decisamente più approfondito e realistico rispetto alle versioni precedenti, in cui la malattia mentale e le menomazioni fisiche lo rendevano un vero e proprio genio del male. L’opera si sofferma sull’impatto sociale della malattia mentale, compreso il desiderio inconscio della società di rendere invisibili i malati: “L’aspetto più buffo dell’avere una malattia mentale è che tutti pretendono che ti comporti come se non ce l’avessi”, osserva amaramente Arthur.

Il film non è scevro da bias abilisti, come l’associazione potenzialmente pericolosa tra malattia mentale e comportamenti violenti. Il Joker di Phoenix diventa un villain perché si sente emarginato dalla società a causa della sua disabilità. Proprio questa sua caratteristica diventerà la sua “arma” distintiva, raggiungendo i picchi di follia che tutti noi ricordiamo ne Il cavaliere oscuro, in cui Joker era interpretato da Heath Ledger.

In entrambi i casi la disabilità dei personaggi viene utilizzata come tropo per acuire la loro malvagità. Sofia Righetti, autrice e attivista molto attiva sui social nella sensibilizzazione sul tema della disabilità, cita spesso questo tropo definito dalla critica cinematografica evil-cripple, letteralmente “storpio malvagio”.

Il personaggio del disabile iper-virtuoso, o super-disabile, al contrario, è un personaggio che, per compensare la propria disabilità, sviluppa capacità eccezionali, al limite del sovrannaturale. In ambito fumettistico/cinematografico/televisivo, pensiamo a Daredevil, il giustiziere cieco; ma non mancano esempi decisamente meno fantasiosi, per quanto poco credibili, come Forrest Gump, Rain man o la nostrana Blanca, detective cieca che sviluppa un super udito nella fiction Lux Vide/Rai Fiction.

Come scrive proprio su Blanca Beatrice Dondi su L’espresso di Repubblica, “per essere considerati normali si è costretti a essere eccezionali”. Il suo posto nel mondo Blanca se lo ritaglia a colpi di straordinarietà, grazie all’udito eccezionale e non grazie alle doti (forse troppo “umane”) del personaggio. Maria Chiara Giannetta, interprete di Blanca, ha raccontato sul palco di Sanremo 2022 come è riuscita a immedesimarsi nel ruolo della detective cieca, accompagnata dai suoi “angeli” o “guardiani”, persone con disabilità visiva che l’hanno supportata durante la realizzazione della serie. A queste persone, però, non è stata data la possibilità di raccontare in prima persona la propria esperienza e il proprio ruolo di consulenti: non è stata data proprio l’opportunità di parlare da quel palco, finendo per essere puramente “decorative”.

L’episodio di Sanremo è stato descritto da più parti come un classico esempio di inspiration porn, espressione coniata dall’attivista Stella Young che indica la rappresentazione delle persone con disabilità come fonte di ispirazione dovuta unicamente al fatto di avere una disabilità. Sofia Righetti su Instagram fornisce numerosi esempi, anche di matrice autobiografica: “Se sono fuori a bere una birra può capitare di trovare chi dice che sono una grande perché nonostante tutto sono qui a divertirmi. Nonostante la disabilità? Questa è un’aggressione perché ritiene che essere disabili sia svilente e la considerazione che hanno di noi è talmente bassa da congratularsi per azioni normali”.

Marina Cuollo, autrice, dottore di ricerca in processi biologici e biomolecole e attivista, sostiene che i bias più comuni che riguardano le persone con disabilità sul grande e piccolo schermo ruotano attorno ai concetti di pietà ed eroicizzazione. “C’è ancora una rappresentazione spesso tragica del vissuto delle persone disabili, drammatica e piena di pathos. Cercando di allontanarsi da questa visione per raccontare in maniera più positiva la disabilità, si scivola nell’estremo opposto, la spettacolarizzazione. La disabilità viene raccontata come qualcosa da superare e non come una componente dell’esperienza umana. Questo accade perché manca una rappresentazione della disabilità da parte di chi la vive sulla propria pelle”.

Al cinema e in tv le persone disabili sono spesso raccontate solo se la loro storia può servire a ispirare lo spettatore, generando in lui compassione o fungendo da esempio (o monito, se sullo schermo abbiamo un evil-cripple). Se pensiamo ai titoli di film e serie tv che parlano di disabilità, pochissimi mostrano la quotidianità di queste persone come farebbero per qualsiasi altro personaggio.

Sofia Righetti sul suo profilo Instagram fa una disamina illuminante sul modo in cui il cinema e la televisione mostrano i device utilizzati da chi ha una disabilità motoria (carrozzina, bastone, stampelle, deambulatore ecc.). “In quale contesto sono stati mostrati questi device? Sono sicura che, a meno che non si trattasse di una scena che mostrava un personaggio in una situazione di disabilità temporanea, come ad esempio una donna incinta al pronto soccorso, la visione degli strumenti per la mobilità è stata strumentalizzata per aumentare la disperazione, facendo leva su pornografia del dolore e morbosità dello spettatore”.

L’attivista in un post su Instagram cita espressamente The Whale, film di Darren Aronofsky tratto dall’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter e vincitore dell’Oscar 2023 per il miglior attore protagonista a Brendan Fraser.

Nel film Brendan Fraser recita indossando una tuta prostetica per interpretare Charlie, professore gravemente obeso che vive recluso in casa. L’attore ha dichiarato che per interpretare il ruolo che gli è valso l’Oscar ha dovuto “imparare a vivere in un corpo nuovo” e di aver “provato tristezza e angoscia” durante le riprese. “La morbosità e la disperazione che si vuole suscitare per il corpo non conforme è accentuata dalla ripresa angosciante degli strumenti che usa per spostarsi” scrive Righetti su Instagram. Roxane Gay, scrittrice e attivista, ha scritto sul New York Times che il film è “uno spettacolo gratuito e autocelebrativo che ha pochissimo a che fare con la vita delle persone grasse”.

Forse perché The Whale, così come moltissimi altri titoli, è l’ennesimo film in cui si cerca di “ricreare” la disabilità, appiccicandola addosso ad attori che dopo una giornata di lavoro si tolgono, con un certo sollievo, la tuta (o la carrozzina o la finta protesi)?

“Questo tipo di narrazione finisce per deludere le persone con disabilità, che sono costantemente sotto rappresentate al cinema e in tv, ma anche il mercato perché continuiamo a proporre sempre le solite storie”, spiega Marina Pierri, critica televisiva, co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv di Milano.

Una caratterizzazione stereotipata della disabilità nel cinema, come scrive Marina Cuollo su Vanity Fair, serve a esorcizzare l’ansia inespressa che molte persone nutrono nei suoi confronti. Il personaggio disabile, quindi, viene utilizzato per motivare il protagonista, incarnando il tropo del “saggio”, impartendo lezioni di vita e fungendo da “stampella emotiva” per l’eroe della storia. Al centro di questa narrazione c’è l’assunto che la persona con disabilità non accetti la sua condizione e per questo ostacoli gli altri personaggi, divenendo l’antagonista, o li supporti fungendo da motivatore “catartico”. Sofia Righetti cita anche questo tropo sulla disabilità che prende il nome di inspirational cripple, “storpio ispiratore”.

Disabilità al cinema, come cambiare la narrazione?

Cosa devono avere un personaggio e una storia per essere davvero interessanti, nuove e innovative nella narrazione della disabilità? Secondo Marina Cuollo manca l’aspetto sociale e politico nel modo in cui le storie di persone disabili vengono raccontate sul grande e piccolo schermo.

“Non c’è equilibrio nelle narrazioni, una quotidianità che ci racconti personaggi sfaccettati, tridimensionali e pieni di contraddizioni, che poi sono i fattori che in genere funzionano su qualunque personaggio. La disabilità è ancora inserita come una caratteristica a caso, appiccicata con lo scotch e non fusa al personaggio con consapevolezza, per cui diventa generalmente parte del conflitto da superare”.

“In molti titoli spesso la disabilità diventa il fulcro della narrazione, lo spunto da cui origina la storia, un espediente narrativo. Quando ciò accade il personaggio ne esce impoverito. Quando pensiamo alla narrazione della disabilità dobbiamo inquadrarla in ottica olistica: non si può rappresentare solo un aspetto di una persona che prende il sopravvento sugli altri e domina su tutto il resto. È come se la totalità di una persona dipendesse da un aspetto specifico: ma nella realtà sono sempre una serie di fattori concomitanti a generare l’unicità della persona. È come se un ipotetico narratore decidesse di raccontare la mia vita a partire dal fatto che sono alta 1,57 m, come se questo aspetto condizionasse tutta la mia esistenza. Naturalmente in parte è vero ma non c’è solo questo. Una narrazione che parte da questo presupposto impoverirà per forza il mio personaggio”, è la riflessione di Marina Pierri.

Nella quotidianità di un personaggio, anche di uno disabile, rientra giocoforza anche l’elemento della sessualità. Nel suo libro A Disabilandia si tromba Marina Cuollo tratta con estrema ironia ma anche irresistibile spietatezza i bias che ruotano intorno alla disabilità quando si parla di sessualità. Dalla compassione all’indifferenza, dal vittimismo alla frustrazione, il problema che si presenta quando si parla di sessualità delle persone disabili al cinema è che nessuno vuole mostrarla. Le persone con disabilità vengono “infantilizzate” nella loro sessualità, che di conseguenza è descritta come platonica o esageratamente problematica.

Questi bias saranno superati solo considerando la persona disabile come parte attiva della produzione, scrittura e interpretazione di un prodotto cinematografico e televisivo.

Per Marina Pierri le persone con disabilità devono essere coinvolte non solo nella scrittura, produzione e regia dei prodotti, ma in primis come interpreti. “Numerosi attori e attrici hanno rivendicato con un certo orgoglio di aver interpretato personaggi con disabilità. Per fortuna ci sono molti artisti che scrivono, producono e interpretano le loro storie: pensiamo a Special, la serie Netflix scritta e interpretata da Ryan O’Connell, una persona con paralisi cerebrale o alla serie spagnola Un metro e venti, anche questa scritta e interpretata da persone con disabilità”.

In Special, tratta dal libro scritto sempre da Ryan O’Connell I’m Special: and Other Lies We Tell Ourselves, il protagonista, stanco di sentirsi definire dal mondo in funzione della paralisi cerebrale, decide di nascondere la sua disabilità ai suoi datori di lavoro, riuscendo a vivere per la prima volta senza l'”etichetta” della disabilità e l’ansiogena coperta protettiva della madre.

“Special e Un metro e venti sono esempi di serie in cui il corpo con disabilità è messo al centro della narrazione, è soggettivizzato e non oggettivizzato”, osserva Marina Pierri. Anche Sofia Righetti elogia Un metro e venti, mini serie in cui la protagonista Juana (Marisol Agostina Irigoyen, attrice in carrozzina) rivendica il diritto di vivere liberamente la sessualità. “Ho amato le scene di sesso, per una volta realistiche e senza pietismi”.

Coinvolgere maggiormente i professionisti all’interno del processo produttivo di un film o una serie tv aiuterebbe anche a combattere la cosiddetta “sindrome dell’impostore” che molte persone disabili provano: la paura di essere considerati e riconosciuti solo in funzione della loro condizione. Marina Cuollo la descrive così: “Guardare alla disabilità come una sorta di mantello che copre ogni altra nostra caratteristica ci fa vivere perennemente in uno stato di dubbio e incertezza sui nostri meriti e le nostre capacità, portandoci quindi ad autoescluderci”. 

Secondo uno studio di Ruderman Foundation del 2018 su 284 serie televisive trasmesse su 37 reti e quattro piattaforme di streaming, in media solo il 21,6% dei personaggi disabili era interpretato da attori con la medesima disabilità. La sotto rappresentazione delle persone disabili sul grande e piccolo schermo è evidente, considerato che si stima ce ne siano circa 1 miliardo. Un altro passo fondamentale per l’uguaglianza e una rappresentazione realistica, priva di bias e pietismo, delle persone disabili è far interpretare personaggi disabili ad attori disabili. Ma non si rischia, così, di “ghettizzare” paradossalmente ancora di più gli attori con disabilità?

“Se oggi togliessimo quei pochissimi ruoli presenti alle persone disabili, anche quelli dove ahimè la disabilità è ancora troppo caratterizzante, queste non avrebbero alcuna opportunità di lavoro”, osserva Marina Cuollo. “Per quanto riguarda l’immedesimazione c’è da fare un distinguo importante che riguarda la questione identitaria. Oggi non ci sogneremmo mai di fare interpretare a una persona bianca un personaggio BIPOC [acronimo di Black, Indigenous and People of Color, ndr], come avveniva con il whitewashing in passato. Per cui in questo preciso contesto storico, se guardassimo alla disabilità in un’ottica identitaria la necessità di avere personaggi disabili interpretati da attori/attrici disabili diventa ancora più importante”.

Marina Cuollo invita a guardare alla questione dell’immedesimazione prescindendo dall’elemento della disabilità: “La disabilità è un aspetto assolutamente trasversale nella vita degli esseri umani. Per cui mi auguro di vedere un giorno non solo una quantità maggiore di personaggi disabili, ma una quantità maggiore di reinterpretazioni o personaggi disabili presenti a prescindere dall’elemento disabilità. Quanto sarebbe bello avere una versione teatrale di Romeo e Giulietta in cui uno dei due personaggi è disabile?”.

Cosa sta facendo l’Italia?

Negli ultimi anni nel nostro paese l’argomento della disabilità è stato affrontato anche dalla politica, non sempre proponendo le soluzioni migliori (come l’istituzione del controverso Ministero per le disabilità voluto dal governo Draghi). La questione della rappresentazione della disabilità al cinema e in televisione è stata discussa anche da numerosi attivisti.

Iacopo Melio (giornalista, scrittore, politico e attivista) ha pubblicato sul suo sito un elenco di film e serie tv con al centro il tema della disabilità, classificandole in base a come affrontano la tematica. Un’iniziativa interessante perché sposta il punto di vista “tradizionale” (e spesso abilista) focalizzandosi invece su come le persone disabili percepiscano la trattazione di questa tematica sul grande e piccolo schermo. Si può essere più o meno d’accordo con alcune classificazioni (di carattere puramente personale e senza l’intenzione di dare pareri tecnici cinematografici), ma di sicuro fornisce un’interessante lista di titoli da vedere.

Uno di questi è sicuramente Prisma, produzione Amazon Prime creata dall’ideatore di SKAM Italia Ludovico Bessegato. Un teen drama in cui la diversità è raccontata in tutte le sue sfaccettature, da quella sessuale e di genere alla disabilità: il personaggio di Carola è interpretato dall’attrice Chiara Bordi, la prima ragazza con protesi a una gamba ad arrivare in finale a Miss Italia nel 2018.

Carola è stata creata avvalendosi della consulenza di Sofia Righetti, che la descrive così sul suo profilo Instagram: “Carola è il primo personaggio disabile sessualmente auto-determinato della storia delle serie tv italiane. È risolta, è vera, non è una donna a metà. Lei sa quello che vuole e se lo prende con l’irriverenza di qualsiasi adolescente. Sa il valore che ha, lo sanno tutti. La amo perché finalmente nei media viene data una rappresentazione giusta di come devono essere le cose, senza pietismo, e spero che spacchi la rappresentazione mediatica della disabilità. C’è tanto di me in Carola”.

Anche nel mondo delle arti performative nel nostro paese qualcosa si sta muovendo per colmare il gap lavorativo e rappresentativo che penalizza le persone con disabilità. “Teniamo d’occhio interpreti come Chiara Bersani, un esempio iper virtuoso di ciò che significa creare prodotti pensati, scritti e interpretati da persone con disabilità”, consiglia Marina Pierri. Performer, autrice, regista e coreografa attiva nel teatro, nelle arti performative e nella danza, Chiara Bersani trasforma il suo corpo in Corpo Politico, dialogando con l’ambiente e un pubblico sempre prossimo alla scena.

Spunti per spettatori consapevoli

Il cinema e la televisione possono avere un ruolo nel cambiare la percezione della società nei confronti della disabilità? O il cambiamento al cinema e in tv avverrà solo quando sarà la società ad aver modificato le lenti con le quali guarda a questa tematica? Marina Cuollo è moderatamente ottimista:

“Io credo che sia possibile un cambiamento nell’audiovisivo, anche perché qualcosina lentamente si muove. Per alcuni prodotti si sta cominciando ad avere almeno la consulenza da parte di persone disabili che si occupano di comunicazione mediale con uno sguardo consapevole verso l’abilismo, e questo certamente produce effetti benefici. Io credo però che il vero cambiamento lo avremo quando le persone disabili verranno finalmente coinvolte nell’intero processo di produzione”.

Essere consapevoli dell’abilismo, soprattutto quando è interiorizzato, è fondamentale per modificare il linguaggio e di conseguenza le dinamiche mentali con le quali la società si approccia alla disabilità. Ad esempio, smettere di dire “diversamente abile”, perché presuppone l’esistenza di una norma sociale comunemente accettata. Anche “addolcire” termini come cieco, sordo ecc. con locuzioni come “non vedente” o “non udente” è obsoleto, perché privilegia il punto di vista delle persone non disabili. Meglio usare la parola “disabile” con funzione di aggettivo che con funzione di sostantivo, decisamente più depersonalizzante.

Quando si parla di disabilità in chiave ironica, come fanno spesso sui social Iacopo Melio e Marina Cuollo, è importante distinguere tra auto-ironia e auto-denigrazione. “Chi sto colpendo con la mia battuta? Sto colpendo un comportamento abilista oppure la mia battuta sminuisce e umilia le persone disabili, me compreso?” spiega su Instagram Sofia Righetti.

Marina Cuollo fornisce un esempio: “Battute come “il blocco su WhatsApp dopo aver litigato solo se hai 11 anni o la 104” sono denigratorie perché sottintendono che chi usufruisce della 104 è idiota. Una battuta come “La puntata di quel podcast mi ha fatto cadere le braccia… Meno male che ho già la 104″ è autoironica perché non c’è accezione negativa intorno alla disabilità, ma gioca sul passaggio da frase figurata a frase letterale”.

Il termine “cripple”, letteralmente “storpio”, storicamente usato con connotazione offensiva e denigratoria nei confronti delle persone disabili, è stato rivendicato da queste ultime col tempo e trasformato in un termine fortemente identitario. Le persone disabili si sono riappropriate di un termine da sempre utilizzato per offendere e ne hanno rivendicato orgogliosamente il significato, ritorcendolo contro gli abilisti. Questa metamorfosi verbale è possibile solo prendendo consapevolezza dell’orgoglio che le persone disabili provano nell’appartenere a una comunità e rivendicandolo socialmente, politicamente e culturalmente, anche al cinema e in tv.

Quello che si augurano le persone disabili è di vedere sempre più rappresentazioni vere, non solo realistiche, della disabilità sul grande e piccolo schermo. Solo così la comunità disabile riuscirà a uscire dall’ombra della sotto-rappresentazione e della rappresentazione in chiave abilista. La disabilità è interessante per ciò che è, senza etichette, filtri o giustificazioni: “Ditemi che non sono un soggetto da film”, è il titolo provocatorio di un’intervista di Marina Cuollo sul Venerdì di Repubblica. Esiste una disabilità normale, vera, esistono personaggi disabili che non hanno bisogno di essere straordinari per venire rappresentati nei cinema o in prima serata.

 

«Non è che non puoi camminare, lo fai diversamente».

«No. Mi sposto in carrozzina proprio perché non posso camminare».

«Ma dire che non puoi fare qualcosa ti discrimina».

«La vita mi ha discriminato quando mi sono ammalato. Che non cammini è un dato di fatto: vogliamo fingere che esistano altri modi di camminare? Non è discriminatorio dire che non cammino, o chiamarmi disabile: lo è molto di più chiamarmi “diversamente abile”, fingere che possa camminare e poi non costruire le rampe per le carrozzine!».

(Tratto da un dialogo ascoltato dall’autrice di questo articolo, una giornalista con disabilità, in un reparto di Neurologia).

 

Giulia Zennaro

 

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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