Quitting economy, ovvero licenziamento consapevole: lasciare il lavoro, nonostante la pandemia, può rendere più felici?

Se è vero il detto che ai nostri tempi è meglio scegliere l’incerto al posto del certo, il fenomeno della quitting economy è più comprensibile di quanto possa sembrare. Nonostante la generazione dei Millennial sia cresciuta con il mito del “posto fisso”, il mondo del lavoro è andato in direzione opposta. C’è chi ha scelto consapevolmente di cavalcare l’onda dell’incertezza, anche durante la pandemia, ripensando completamente al proprio rapporto con il lavoro. Anche facendo scelte radicali, come lasciare un lavoro stabile: sono i job quitters, che rivoluzionano l’equilibrio tra vita lavorativa e privata per inseguire un modello di vita alternativo.

Quitting economy e pandemia

Il fenomeno dei lavoratori che scelgono consapevolmente di lasciare la propria azienda per costruirsi un percorso lavorativo autonomo e alternativo è sempre esistito. La pandemia ha esacerbato le sofferenze psicologiche e sociali dei lavoratori di ogni settore, facendo emergere disuguaglianze, situazioni di stress e portando a una consapevolezza più profonda del nostro rapporto col lavoro. Mesi di smart working e di cassa integrazione hanno portato milioni di persone ad trascorrere più tempo a casa, con la propria famiglia e a coltivare i propri interessi. Ne deriva una naturale presa di consapevolezza sull’importanza del proprio tempo libero e una riflessione su come sia necessario ripensare totalmente al proprio rapporto con il lavoro.

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Negli Usa, dove il fenomeno della quitting economy è maggiormente diffuso, almeno 4 milioni di lavoratori hanno abbandonato il proprio lavoro. Soprattutto nel settore del tech, in cui si registrano i più alti tassi di stress e sfruttamento, la penuria improvvisa di lavoratori ha costretto le aziende a interrogarsi su come attrarre nuove figure. Ma cosa spinge un lavoratore a lasciare il proprio posto di lavoro nel bel mezzo di una pandemia mondiale? Si tratta di incoscienza o c’è qualcosa di più? Le ragioni del fenomeno quitting economy possono essere svariate. Molti lavoratori avevano già in mente di lasciare l’azienda e la pandemia ha solo accelerato il processo. Alcuni hanno sentito l’esigenza di ripensare il proprio ideale di vita, togliendo il lavoro dalla cima delle priorità, proprio sull’onda della pandemia.

Altri hanno lasciato il lavoro perché troppo esauriti per i ritmi frenetici a cui le aziende, all’indomani della crisi economica, hanno sottoposto i dipendenti. Altri ancora, lavorando da casa, hanno scoperto che lo smart working consente un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata. In generale, il comune denominatore tra tutti i casi di job quitters sembra essere una maggiore consapevolezza che il proprio tempo è prezioso, che la vita può non ruotare interamente intorno al lavoro e che è necessario riprendere il controllo della propria esistenza lavorativa e personale.

La risposta delle aziende

A un’autocritica personale e intima di ogni lavoratore corrisponde un mea culpa aziendale. Le grandi realtà del tech, del marketing e del digitale stanno accusando il colpo e preparano una contro strategia per attrarre i dipendenti perduti. Il fenomeno della quitting economy interessa soprattutto le realtà in cui lo stress è alto, il rischio di burnout lavorativo è dietro l’angolo e la possibilità di ripensare il lavoro in maniera agile è connaturato al lavoro stesso.

Molte aziende stanno concedendo ai dipendenti la possibilità di moltiplicare le ore di smart working, per fermare l’emorragia di job quitters e molte altre stanno ripensando la propria filosofia lavorativa per attrarre nuovi dipendenti. Si pensa che la perdita di un dipendente, per l’azienda, rappresenti unicamente un alleggerimento dei costi ma non è così: perdere un dipendente è (quasi) sempre perdere capitale umano.

Alessandro Chelo, consulente di direzione ed esperto di gestione del cambiamento culturale nelle imprese, sostiene che la competenza del lavoratore rappresenta un tesoro per il dipendente e per l’azienda. Un lavoratore che ha ricevuto una formazione seria e un trattamento equo sarà più propenso a parlarne bene, rinnovando la propria lealtà e consentendo all’azienda di attrarre nuovo personale.

Flessibilità lavorativa: risorsa o minaccia?

Il fenomeno della quitting economy, dunque, si inscrive perfettamente all’interno della società liquida in cui ci troviamo. La precarietà, l’incertezza lavorativa e la volatilità economica sono lette dai job quitters come un’opportunità anziché una maledizione: ma non per tutti può e deve essere così.

Molti giovani sono abituati a passare da un lavoro all’altro perché il mondo del lavoro si è evoluto in una realtà più agile insieme a loro. Per la generazione precedente, così come per chi è a un passo dalla pensione, la quitting economy può rappresentare una minaccia. La flessibilità lavorativa e la capacità di sapersi reinventare non possono essere una caratteristica propria del lavoratore tout court, tantomeno di chi per natura o necessità non ha possibilità o motivo di sviluppare queste abilità.

Il mondo del lavoro non dovrebbe cambiare in funzione della quitting economy, ma alla luce di ciò che le cause della quitting economy (in primis la pandemia) hanno evidenziato. Ripensare all’equilibrio tra lavoro e vita privata deve interessare prima di tutto le aziende. Il principio “lavorare meno per lavorare tutti” non solo genera più felicità nei dipendenti, ma anche più posti di lavoro. La precarietà e l’agilità lavorativa possono diventare una risorsa se sono iscritte in un sistema lavorativo solido e garantista: altrimenti sono solo il primo sintomo del caos.

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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