Dopo aver analizzato il fenomeno della polarizzazione delle opinioni e l’informazione viziata in relazione alla pandemia, lo psicologo Alessandro Ciardi tenta di fornire una risposta allo stesso fenomeno relativo alla guerra in Ucraina.

Quali sono i principali difetti di informazione circa la guerra in Ucraina? Su quali presupposti andrebbe centrata una corretta comunicazione con i lettori?

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Credo che il lettore abbia il diritto, anzitutto, di essere informato. Cioè, di avere la possibilità di conoscere le ragioni storiche, politiche, economiche che muovono interessi e sostengono decisioni e comportamenti. Significa fornire elementi utili a costruire un punto di vista autonomo. Mi sembra, ovviamente detto da lettore e da spettatore, che i grandi temi, e certamente la guerra in Ucraina lo è, siano cavalcati per questioni propagandistiche: informazione frammentata, decostruita e riassemblata. Allora mi chiedo: a che scopo?

Mi sta a cuore ciò su cui una democrazia si regge, e dal mio punto di vista è la libera possibilità e capacità di discutere significati e rappresentazioni. Una corretta informazione dovrebbe fornire a ognuno gli elementi per costruirsi un’opinione “propria”, personale. Non per assimilare l’opinione di qualcun altro. Lo ripeto: per amore dell’intelligenza del lettore, per rispetto del lettore.

Pensando alle tante iniziative in corso che mirano a penalizzare la Russia, quale pensa che sia l’impatto sul “penalizzato”? Detta fuori dai denti: accanirsi contro qualcuno non rischia di provocare paradossalmente un ricompattamento?

Noi siamo biologicamente predisposti all’empatia. La scoperta italiana dei neuroni specchio rappresenta solo una delle fondamentali scoperte neuro-scientifiche a sostegno di questa naturale predisposizione. Se guardiamo una persona compiere un’azione, si attiveranno nel nostro cervello le stesse identiche aree della corteccia motoria di chi sta compiendo quel movimento, proprio come se ci stessimo muovendo a nostra volta. È una esperienza incarnata. Assumere, quindi, il punto di vista dell’altro rientra ampiamente nel nostro patrimonio di risorse disponibili. Il punto è che queste attitudini vanno coltivate. Da qui, l’enorme responsabilità nell’educazione delle future generazioni alla consapevolezza, alla compassione e alla corretta informazione.

Le iniziative di penalizzazione di una parte ai danni dell’altra in questo momento credo assolvano più a una funzione politica, per dire che si sta facendo qualcosa. L’accanimento contro qualcuno porta l’altro a trincerarsi in uno stato difensivo, reattivo, con rischio di escalation. La sanzione, per esempio in ambito educativo, non deve porsi l’obiettivo di marginalizzare chi ha infranto una regola, allontanandolo dalla comunità, ma di metterlo nelle condizioni di comprendere quanto ha fatto, cercando di reintegralo nella comunità. Detto in altri termini: il fuori legge è già “fuori” dalla legge. Alla sanzione spetta il difficile compito di riportarlo dentro la comunità.

In termini di psicologia delle masse quale può essere l’impatto delle azioni in corso? Come potrebbero essere applicate dinamiche di contenimento anziché di contenzione e qual è la differenza tra queste due modalità di reazione?

La differenza tra contenimento e contenzione è fondamentale. La contenzione (in certi casi, drammaticamente necessaria) priva l’altro della possibilità di decidere per se stesso. Il contenimento crea un presidio, traccia un perimetro ma lasciando libertà di movimento all’altro, coinvolgendolo come parte attiva nelle decisioni da prendere. Il contenimento è però più difficile da praticare. Richiede consapevolezza, capacità di equilibrio, fermezza unita a fiducia e rispetto per l’altro, anche quando l’altro non riesce ad averne per sé.

Contenimento vuol dire: “credo in te, in noi” e creo le condizioni perché questo processo di pensiero possa avvenire. Le azioni che stiamo intraprendendo ora sono ispirate alla retorica dei buoni e dei cattivi. Da un lato gratificano il bisogno di un capro espiatorio e dall’altro incoraggiano la regressione e il bisogno di compattarsi intorno a un’idea assoluta. Un aspetto tipico dell’identificazione cieca e integralista a un movimento.

A livello di opinione pubblica questa necessità di ricompattarsi dietro una bandiera o un leader ci assolve dalla fatica di capire la realtà, assumendo sempre un punto di vista preconfezionato.

Provi a immaginarsi a capo di un giornale in qualità di psicologo: per fare una corretta informazione sul conflitto, di che tipo di articoli ci sarebbe bisogno?

Se rispetto l’intelligenza e la sensibilità del lettore, cerco di tenere aperto il dibattito, offro una pluralità di punti vista, sostengo la complessità, anche se scomoda, contro l’ipersemplificazione. Tutto dipende dall’intenzione con cui scrivo. Credo sia una domanda importante, come annunciava il personaggio interpretato da Will Smith nel prologo del film Collateral Beauty: qual è il vostro perché?

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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