La ricerca di fonti di energia per sopperire alla mancanza delle importazioni di gas russo, la difficoltà della città di Roma nello smaltimento dei rifiuti e il conseguente annuncio del sindaco della città eterna, Roberto Gualtieri, che ha dichiarato che anche la capitale avrà un suo termovalorizzatore in grado di gestire ogni anno 600mila tonnellate di immondizia, hanno riportato alla ribalta il tema dei termovalorizzatori in Italia.

Questi impianti di incenerimento si occupano dello smaltimenti dei rifiuti urbani e dei rifiuti derivanti dal trattamento degli stessi e sono in grado di sfruttare il calore generato dalla combustione per convertirlo in energia. Nel nostro paese sono 37 i termovalorizzatori operativi secondo l’ultimo rapporto elaborato dal Centro nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

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I detrattori dei termovalorizzatori, però, hanno portato avanti una proposta alternativa: l’ossicombustione, una tecnica innovativa, che è già stata sperimentata in Puglia, con un impianto nato a Gioia del Colle, attraverso cui alcuni carburanti vengono bruciati tramite l’ossigeno puro. In questo modo si riesce a concentrare la CO2 prodotta durante l’incenerimento a livelli tali da permetterne la cattura a valle.

Come funziona un termovalorizzatore?

In un termovalorizzatore sono quattro le fasi per lo smaltimento dei rifiuti e la generazione di energia. Nel primo procedimento, che riguarda la raccolta e lo stoccaggio, i rifiuti non destinati alla filiera del riciclo, vengono scaricati nella vasca di raccolta e miscelazione e, in seguito, caricati nelle caldaie delle linee di combustione, la cui temperatura è regolata a oltre 1.000 gradi. Durante la seconda fase avviene l’effettiva combustione che, grazie al calore prodotto, serve per la generazione del vapore che porterà poi alla produzione di energia elettrica.
Nel terzo passaggio, uno tra i più importanti,  i fumi della combustione vengono raccolti per poter essere trattati prima di essere immessi in atmosfera. Lo scopo del trattamento è quello di ridurre le sostanze inquinanti presenti nei fumi prima che questi vengano espulsi. Ogni linea di combustione ha un trattamento fumi dedicato, che entra in funzione già nella camera di combustione dove i fumi vengono trattati con ammoniaca, per abbattere gli ossidi di azoto.
Successivamente i fumi passano attraverso un sistema catalitico per un’ulteriore riduzione degli ossidi di azoto e di ammoniaca mentre in uscita dal circuito della caldaia, arrivano a un sistema di depurazione e filtrazione, che trattiene i microinquinanti, tra cui metalli pesanti, diossine e furani. I fumi depurati passano attraverso filtri a maniche, che trattengono tutte le polveri in sospensione, e quindi convogliati al camino.
L’ultima fase consiste nella generazione effettiva di energia che si riesce a fare grazie alla combustione dei rifiuti, che può essere utilizzata nei diversi impianti per due fini principali: il primo è il teleriscaldamento che si può ottenere per aumentare la temperatura dell’acqua, che poi viene convogliata nelle abitazioni domestiche o negli impianti industriali oppure per la generazione vera e propria di energia ad opera di turbine, che vengono messe in moto dal vapore generato grazie all’abolizione dell’acqua sfruttando il calore emesso dai termovalorizzatori.

Secondo il Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani, nel 2019 i termovalorizzatori in Italia hanno trattato complessivamente 5,5 milioni di tonnellate tra rifiuti urbani e rifiuti speciali, producendo 4,6 milioni di MWh di energia elettrica e 2,2 milioni di MWh di energia termica: una quantità in grado di soddisfare il fabbisogno di circa 2,8 milioni di famiglie.

Da questa ricerca emerge, inoltre, che lo smaltimento dei rifiuti di un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione, emette quantità relativamente modeste di inquinanti. In questo modo si è potuto constatare che non ci sono evidenze che comportino un rischio reale e sostanziale per la salute anche perché per gli inceneritori ci sono limiti molto stringenti alle emissioni, che non hanno eguali nel panorama delle istallazioni industriali. Relativamente all’emissione di Pm 10, il contributo è pari allo 0,03% contro il 53,8% delle combustioni commerciali e residenziali.

Il processo di ossicombustione

In questo nuovo processo di smaltimento dei rifiuti le sostanze non vengono bruciate nel senso in cui lo intendiamo, infatti, il processo di combustione non avviene in atmosfera di aria, a differenza dei termovalorizzatori, ma in presenza di solo ossigeno, prodotto nell’impianto, ad una pressione di 5-6 bar e ad una temperatura di circa 1430°C.
Grazie a queste condizioni, il processo di ossicombustione prende anche il nome di “senza fiamma” perché, a differenza della normale combustione, la fiamma è incolore in quanto non c’è produzione di particolato e di sostanze solide. Le sostanze organiche, in questo modo, sono bruciate e ossidate totalmente producendo anidride carbonica e acqua dalle sostanze organiche, mentre le sostanze inorganiche generano un materiale vetroso inerte, che può essere utilizzato ad esempio come materiale da costruzione.
Al contrario dei termovalorizzatori, gli impianti di ossicombustione non presentano camini, perché le sostanze volatili prodotte dal processo sono solo anidride carbonica e acqua. L’acqua viene fatta condensare e riutilizzata nel procedimento mentre l’anidride carbonica, essendo particolarmente pura, a differenza di quella degli inceneritori, si immagazzina in bombole e viene venduta per ricaricare gli estintori, come ghiaccio secco o gas inerte per conservare gli alimenti.

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Giovanni Binda

Giovanni Binda

Giovanni Binda, aspirante pubblicista, scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista. E tu cosa stai aspettando?

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