Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la giornata della memoria del genocidio del popolo ebraico. Quali sono i genocidi del mondo odierno e cosa stiamo facendo per combatterli?

Perché la giornata della memoria è ancora importante

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria“, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Così recita la legge 211 del 20 luglio 2000, che istituisce la giornata della memoria. A ottant’anni di distanza, perché è ancora importante ricordare e celebrare?

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Nulla come le parole di una sopravvissuta possono aiutare a comprendere. Edith Bruck, internata ad Auschwitz a 13 anni e divenuta una scrittrice e una testimone della memoria, ricorda la sua ultima conversazione con un altro sopravvissuto all’Olocausto, Primo Levi: “Quattro giorni prima di morire, mi chiamò e mi disse “Era meglio ad Auschwitz. Ora non c’è più speranza. Negano quello che è stato anche mentre siamo ancora vivi, cosa faranno quando non ci saremo più?”.

Non è solo il negazionismo a essere una piaga: ai giorni nostri spesso la tragedia dell’Olocausto viene vilipesa con paragoni svilenti. Pensiamo ai cortei No Green Pass con alcuni manifestanti travestiti da internati nei lager. Una ferita e un oltraggio che Edith Bruck commenta così: “È stato orribile, una coltellata. Episodi del genere dovrebbero preoccupare tutti, non solo i sopravvissuti”.

L’olocausto dei nostri giorni

Le parole di Edith Bruck sono un campanello d’allarme, tanto più se sfogliamo i dati relativi ai genocidi e alle persecuzioni di matrice etnica che ancora avvengono ai nostri giorni nella sostanziale indifferenza generale. Uno di questi proprio a opera dei discendenti degli ebrei deportati nei campi di sterminio. Se nella risoluzione 181 del novembre 1947, che concede agli ebrei di trasferirsi nel neonato stato ebraico, veniva in qualche modo salvaguardato il diritto dei palestinesi di restare nei propri territori (risoluzione 194 del 1948), di fatto negli anni successivi si verificò un esodo di migliaia di famiglie, private di tutto.

Decine di migliaia di palestinesi morirono negli anni successivi, nel tentativo di riprendersi le proprie case e la triste conta delle vittime non si è mai arrestata nei decenni successivi. Il resto, come si sa, è storia: la ferita apertasi tra israeliani e palestinesi non si è ancora risolta e lo stato di Israele ha adottato nei confronti dei palestinesi politiche di grande durezza: rastrellamenti, pulizia etnica, stupri, esecuzioni sommarie.

Quello palestinese a opera degli israeliani non è certo l’unico genocidio che sta avvenendo ai nostri giorni. Lo scorso novembre il tribunale di Francoforte ha condannato il terrorista dell’Isis iracheno Taha Al-J all’ergastolo per il genocidio del popolo yazida, una minoranza religiosa ed etnica della regione del Sinjar. Dei circa 518.000 yazidi stimati in Iraq, almeno il 2,5% è stato rapito o sterminato. L’imputato era stato giudicato per aver provocato la morte di una bambina di cinque anni, ma l’avvocatessa per i diritti umani Amal Alamuddin (più conosciuta con il nome da sposata: Clooney) si è detta soddisfatta della sentenza perché “ora nessuno lo può più negare: l’Isis è colpevole di genocidio”.

Dal 2014, quando lo stato islamico ha occupato i territori del Sinjar, a nord dell’Iraq, gli yazidi sono vittime di violente persecuzioni di carattere religioso. Proprio come gli uiguri in Cina, una minoranza di religione musulmana che lo stato tenta in tutti i modi di reprimere e cancellare. Controllo delle nascite, sterilizzazioni forzate, internamento in campi di lavoro e di “rieducazione”: la “soluzione finale” cinese continua incontrastata nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale.

Cosa stiamo facendo per fermare i genocidi?

La questione del riconoscimento del genocidio, per cominciare, non è affatto semplice. Lo si è visto con la questione armena, il primo genocidio del Novecento, addirittura antecedente a quello ebraico: la Turchia non si è ancora assunta pienamente le proprie responsabilità. Addirittura nega che sia mai avvenuto uno sterminio: il primo passo per ottenere giustizia, dunque, non passa dagli stati “colpevoli” ma, semmai, dalla comunità internazionale.

Qualche giorno fa, il 21 gennaio, la Cina si è opposta alla risoluzione votata dall’Assemblée Nationale francese che denuncia il genocidio degli uiguri da parte di Pechino, chiedendo al governo di Parigi di fare la stessa cosa. Si è appena aperto il semestre di presidenza della Francia del Parlamento Europeo e una risoluzione del genere su un tema solitamente poco dibattuto è di certo una buona notizia. Da sola non risolve questa tragedia ma indica una direzione: deve essere la società civile a farsi carico delle sofferenze dei popoli perseguitati e isolare in tutti i modi gli Stati che commettono genocidi e persecuzioni.

Anche per quanto riguarda lo sterminio yazida a opera dello stato islamico la sentenza tedesca farà storia: finalmente è stato riconosciuto il genocidio di una popolazione minoritaria in Iraq, con caratteristiche religiose ed etniche uniche e per questo oggetto di persecuzioni.

Ma la giustizia ha tempi spesso troppo lunghi: la soluzione per dare un senso alla giornata della memoria deve necessariamente passare attraverso l’educazione. Il periodo storico in cui viviamo si presta al rigurgito di teorie nazionaliste e identitarie, inasprite dallo smarrimento ideologico causato dalla pandemia. Per contrastare bui ritorni storici, la direzione la indica Edith Bruck: “A volte vado nelle scuole con il cuore pesante ma quando esco potrei volare, perché vedo che c’è risposta. Ai ragazzi servono difese per il futuro. Quando non ci saranno più i testimoni toccherà agli storici e agli insegnanti”.

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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