Con il suo film “Io resto” Michele Aiello ha raccontato la realtà degli ospedali durante il primo lockdown. L’intervista di Buonenotizie.it.

Durante il primo lockdown, televisioni e giornali ci restituivano quotidianamente un bollettino di morti e ricoverati agghiacciante ma freddo e lontano. Con il suo film “Io resto”, il regista veronese Michele Aiello ha raccontato la realtà più nascosta degli ospedali, filmando la vita quotidiana di pazienti e operatori sanitari.

Michele Aiello è un giovane regista specializzato in documentari che unisce l’attività di giornalista freelance a quella di video reporter. Collabora con l’associazione culturale Zalab e il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli del Teatro di Roma. A fine marzo 2020, nel pieno del lockdown nazionale e con l’intero Paese che sprofondava nel panico, insieme al direttore della fotografia Luca Germani è entrato agli Spedali Civili di Brescia per raccontare la pandemia dall’interno.

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Come ti è venuta l’idea di realizzare un film documentario sulla pandemia?

Il film è un modo per dare un volto alle persone che lavorano e vivono all’interno degli ospedali. Nel momento in cui sono entrato, a marzo 2020, le informazioni ci arrivavano soprattutto attraverso i giornali e la televisione. C’erano decisamente troppe parole: il mio film serve per far vedere alla gente quello che succedeva lì dentro, dare l’immagine di quell’evento. Volevo restituire la sensazione che tutti potessero entrare in ospedale per vedere cosa stava succedendo.

Quanto siete rimasti dentro gli Spedali Civili di Brescia?

Un mese e una settimana. Mi serviva tempo per ambientarmi e raccontare le storie di vita quotidiana di chi lavora lì e di chi si trovava ricoverato. Ho cercato di dare una lettura che fosse il meno possibile eroica di quello che fanno medici e operatori sanitari. Per tutti si trattava di un’impresa eroica, ma quello è semplicemente il loro lavoro: si sono trovati a svolgerlo in una situazione straordinaria di emergenza, ma sono professionisti.

Nel film vediamo anche molte storie di pazienti.

Filmare il tentativo di medici e operatori sanitari di mantenere un contatto con chi si trovava lì ricoverato mi ha spinto a trovare il nome per il film, “Io resto”. Non è riferito solamente al punto di vista dei sanitari, che si trovano lì per lavorare. Si tratta soprattutto dell’attaccamento alla vita dimostrato dai pazienti: quelli che sono sopravvissuti e che non avevano alcuna intenzione di “andarsene”.

Qual è la storia che ti ha colpito di più?

Forse una signora che ha insistito molto per essere fotografata da noi: era guarita al Covid e ci avevamo parlato mentre si trovava lì dentro ricoverata, al di là dei vetri. Ma ce ne sono tante.

Avevate paura, come del resto i medici e gli operatori sanitari, di poter “portare a casa” il virus mentre stavate girando?

Naturalmente sì, e infatti abbiamo adottato le stesse precauzioni che prendevano le persone che lavoravano lì. Io e Luca Gennari, il direttore della fotografia, ci siamo chiusi in casa in un appartamento dal quale facevamo la spola per l’ospedale. Proprio come hanno fatto medici e infermieri chiamati da tutta Italia per andare a lavorare in quella zona, che all’epoca era l’occhio del ciclone dell’epidemia.

Provare quello che hanno provato medici e infermieri per un mese deve essere stato difficile.

Era un contesto piuttosto de-umanizzante, quello dell’ospedale: i contatti, se possibili, erano filtrati al massimo. Nel film mi premeva soprattutto restituire i tentativi dei lavoratori della sanità di mantenere una comunicazione coi pazienti. Molti di loro, così come i malati, non avevano voglia di parlare, a causa dello stress e per i traumi che hanno subito in quei mesi e che si portano ancora dietro. C’era anche molta rabbia: gli stessi operatori erano arrabbiati per quello che i loro pazienti dovevano sopportare, non solo il virus, ma anche le criticità della nostra sanità che conosciamo tutti.

Il documentario sarà visibile sono nei cinema: una scelta che ha una motivazione precisa.

In primis, i documentari non attirano l’attenzione dei grandi cinema e non hanno un circuito di distribuzione enorme. Ma la motivazione è soprattutto sociale: vorrei che le persone si riunissero e si trovassero al cinema per vedere il film tutte insieme, come una volta.

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Giulia Zennaro

Giulia Zennaro

sono una giornalista freelance di cultura e società, scrivo come ghostwriter, insegno in una scuola parentale e tengo laboratori di giornalismo per bambini. Scrivo per Hall of Series e theWise Magazine e, naturalmente, BuoneNotizie.it: sono diventata pubblicista grazie al loro laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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