Come riconoscere un uso sano dell’online da una dipendenza da internet? Quale la terapia?

Il recente periodo di emergenza sanitaria ci ha abituati alla connessione continua. Chi per lavoro in smartworking, chi per restare in contatto con familiari ed amici, chi per passare il tempo libero tra corsi online e attività fisica in streaming, il tasso giornaliero di connessione è decisamente aumentato. Quando però si può parlare di dipendenza da internet? E di che si tratta?

L’iperconnessione è una forma di disturbo ossessivo/compulsivo registrato già negli anni ’90 in USA e dunque presente ben prima della pandemia. Esso implica l’incapacità di disconnessione da parte dell’individuo che ne soffre, compromettendo la sua vita quotidiana. Il distacco dall’online diventa dunque molto faticoso e difficile, comportando stati di astinenza quali nervosismo e irritabilità.

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Gli adolescenti sono i soggetti più predisposti a questo disturbo, soprattutto a causa dell’isolamento sociale dovuto all’emergenza da coronavirus e alle scuole chiuse che adottano la didattica a distanza. Il tempo dedicato a internet è spesso maggiore delle altre attività da svolgere nel quotidiano e questo implica inoltre una impossibilità di sviluppo delle responsabilità e della personalità.

Il trattamento della patologia

L’uso sano di internet si differenzia dall’uso patologico perché nel primo caso l’utente è online per uno scopo chiaro e per un periodo di tempo definito, sapendo gestire con serenità nel suo quotidiano (nel caso di abuso dei social network) sia la comunicazione reale, sia comunicazione virtuale.

Il trattamento – svolto nei centri specialistici per le dipendenze  – fa spesso parte della terapia definita “cognitivo-comportamentale” utilizzata anche nelle altre specie dipendenze. Questo tipo di terapia è solitamente limitato nel tempo e dalla durata pressoché di 3 mesi o 12 sessioni. Diversamente dalle altre dipendenze, in questo caso la terapia si concentra a riorganizzare l’utilizzo di internet rendendolo funzionale a un determinato scopo (lavorativo o sociale nel caso di isolamento da Covid-19) senza che esso alteri o comprometta la vita del paziente.

Possibili soluzioni: le tecniche comportamentali

Come spiegano gli psicoterapeuti dell’Istituto A.T. Beck di Roma, specializzato in questo tipo di terapia, si inizia prima da interventi comportamentali per poi concludere con interventi cognitivi. In pratica, si invita il paziente a ridimensionare la durata della connessione online sostituendola con altre attività, sia fisiche che mentali. Per interrompere la routine di dipendenza si adotterà la “pratica dell’opposto”, ossia sostituire le abitudini di connessione con altre nuove abitudini che non riguardino la vita virtuale.

Si potranno inoltre usufruire di “ostacoli esterni”, ossia momenti dedicati ad altro che sostituiranno le ore di connessione a internet. Gli ostacoli potranno essere coadiuvati da segnali espliciti che invitino all’interruzione dell’abitudine disfunzionale, come sveglie o filtri programmati per il monitoraggio delle ore impiegate sul network.

Infine le cosiddette “carte promemoria” proposte dal clinico saranno di grande aiuto: il paziente dovrà scrivere 5 conseguenze negative dell’uso di internet e 5 benefici che guadagnerà interrompendone l’utilizzo.

Durante la terapia cognitivo-comportamentale si registrano su base giornaliera cambiamenti e progressi tramite tabelle di osservazione. Al termine della terapia il paziente potrà comprendere quali tecniche sono state più efficaci e quali meno in modo da poterle automatizzare.

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Martina Tolaro

Martina Tolaro

Martina Tolaro, curator ed editor freelance. Ho collaborato con imprese culturali creative nazionali e artisti internazionali. Scrivo per BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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