Con slow media, o media lenti,  ci si riferisce ad un approccio alla produzione e al consumo di contenuti lento e consapevole in opposizione ad una fruizione rapida e distratta propria del mainstream.

Slow è meglio che fast

L’intuizione alla base di questo modello culturale ricalca quanto accaduto per lo slow food – una cucina qualitativamente buona e attenta al prodotto che valorizza l’esperienza del mangiare –  nato come reazione al fast food.

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L’espressione slow media inizia a diffondersi nel 2010 negli Stati Uniti e in Europa. Nello specifico è in Germania che viene stilato lo Slow Media Manifest. Il manifesto vuol arginare il modo di rapportarsi  all’informazione caratterizzato dall’immediatezza e dalla superficialità che  spesso è all’origine di fenomeni che minano la genuinità dell’informazione. Esempi quali le fake news, titoli “acchiappaclick” e notizie di bassa qualità infettano sempre più frequentemente i canali di comunicazione.

Benedikt Köhler, Sabria David e Jörg Blumtritt, autori del Manifest indicano il ricorso ad un’impostazione costruttiva basata sul consumo consapevole e attento.  Il pensiero critico è il prezzo da pagare per una lettura veloce e disattenta dei contenuti on-line e off-line. Occorre quindi porvi rimedio.

Per arginare questa deriva gli slow media puntano sulla sostenibilità, intesa come un aspetto del vivere sociale, ragionano in termini di monotasking invece che di multitasking  guardando alla qualità,  creando dialogo e costruendo micro-comunità nelle quali particolare attenzione è posta al rapporto con i fruitori.

Dal giornalismo ai social, tutto si fa slow

Un esempio di slow media è lo Slow Journalism, un giornalismo attento alla verifica delle fonti e che va in profondità senza rinunciare ad uno stile narrativo piacevole.  Questo tipo di approccio rifiuta forme di guadagno basate sul marketing aggressivo che ha come finalità la quantità delle interazioni più che la loro qualità.

Tra gli slow media si possono includere anche realtà come quelle dei podcast, contenuti audio trasmessi in streaming, scaricabili e archiviabili che possono essere ascoltati quando si vuole.  Questa attività spesso si differenzia per il valore dei contenuti che stimolano l’interesse di nicchie di ascoltatori fedeli.

Anche i social media hanno conosciuto una fase slow. È il caso di Clubhouse, di cui abbiamo già parlato. Il social è strutturato in rooms, o stanze, che sono vere e proprie chat vocali dedicate a diversi argomenti. Una volta entrati nella stanza si può ascoltare la conversazione ma non si può parlare. Per partecipare  bisogna alzare la mano ed essere promossi a speaker uscendo fuori dall’anonimato. In questo modo si è costretti a dare contributi validi e pertinenti per non rischiare di essere tagliati fuori dalla discussione.

Dagli slow media all’Attention Economy

La ricerca “Attention Economy” condotta da Teads, leader globale nel mercato della pubblicità video, evidenzia come gli ambienti editoriali slow media guidino tassi di engagement superiori rispetto a quello dei social media. Il motivo è da ricercarsi nell’attenzione posta dagli editori alla costruzione del rapporto con il pubblico di riferimento attraverso l’ascolto dei loro  bisogni e l’attenzione per i dettagli.

Gli slow media sono anche all’origine di un nuovo modello di business, definito Attention Economy, centrato sull’attenzione come risorsa e sulla creatività come fulcro delle strategie di marketing, contro il sovraccarico informativo. Il consumo lento aumenta l’investimento emotivo dell’utente attraverso contenuti più coinvolgenti per i consumatori che si stanno cercando di raggiungere.

Gli slow media sono la risposta ad una cultura che ha reso tutto fast perdendo di vista la qualità  e che spesso è all’origine di frustrazione e ansia. Essi sono una buona occasione per rivalutare il tempo come un alleato e non un antagonista nella quotidianità. Per dirla con l’ultimo punto del manifesto degli slow media: I media lenti pubblicizzano la fiducia e si prendono il tempo necessario per essere credibili. Dietro Slow Media ci sono persone reali. E lo noti anche tu.

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“L’informazione può essere pericolosa”. Petizione per un giornalismo costruttivo 

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Giacomo Capodivento

Giacomo Capodivento

Insegno religione dal 2012. Laureato in Comunicazione e Marketing e studente in Comunicazione e innovazione digitale. Per me occuparmi di comunicazione è una questione politica. Oggi collaboro con BuoneNotizie.it grazie al laboratorio di giornalismo per diventare giornalista pubblicista.

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