Che il mondo del lavoro stesse andando incontro a cambiamenti profondi, non è un mistero per nessuno. Così come non è un mistero il fatto che la pandemia abbia in parte accelerato e in parte sviluppato in modo nuovo alcune linee di tendenza che erano già in nuce. Come è cambiato il mondo del lavoro, sulla scia delle trasformazioni profonde innescate negli ultimi due anni? Quali sono e quali saranno le professioni più ricercate? Con questa inchiesta, abbiamo cercato di trovare qualche risposta e lo abbiamo fatto basandoci su un nutrito set di dati che ci hanno aiutati a leggere alcune delle linee di tendenza del panorama lavorativo attuale: la diffusione dello smart working, il fenomeno della Great Resignation, l’interazione tra la domanda di lavoro e le principali problematiche attuali (crisi climatica, pandemia, transizione demografica).

Lavoro che tramonta, nuove professioni che emergono

Secondo l’indagine “Future of Jobs” del World Economic Forum, la nuova tendenza – veicolata dalle innovazioni tecnologiche – andrà nella direzione della scomparsa delle professioni più routinarie e meno qualificanti, che verranno sempre più automatizzate. Nulla di realmente nuovo, in realtà: il problema – con annessi e connessi – si era già posto all’epoca della Seconda rivoluzione industriale quando, distruggendo diversi macchinari da cui temevano di essere sostituiti, gli operai diedero origine al fenomeno del Luddismo. Ma è davvero un male che alcune professioni scompaiano? Sì, se non vengono sostituite ma quello che sta succedendo oggi, sembra essere piuttosto l’opposto: se, come si evince da un’indagine di McKinsey&Company di qualche anno fa, nel futuro prossimo le macchine svolgeranno il 49% circa delle professioni svolte attualmente da manodopera umana, è anche vero che stanno già nascendo nuove professioni.

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È la domanda che genera l’offerta. In questo senso, il lavoro del futuro sta già richiedendo nuove figure nell’ambito della green economy – in risposta ai cambiamenti climatici – della silver economy  – in risposta all’invecchiamento della popolazione, della cyber security, dell’analisi dati e della gestione di e-commerce in risposta al vertiginoso processo di transizione digitale. Il lavoro ci sarà, quindi e sarà anche tanto ma una cosa è certa: bisognerà accettare di cambiare, riqualificandosi, acquisendo nuove skills ma anche costruendo una visione nuova della professionalità. Un processo che non riguarda solo i lavoratori, che dovranno garantire flessibilità di competenze, ma anche le aziende, che dovranno offrire percorsi di aggiornamento e di riqualificazione fruibili.

Smart working e Grandi Dimissioni

Al crocevia di queste trasformazioni, si colloca poi il fenomeno del lavoro agile: lo smart working che si invocava, prima della pandemia, e che con i lockdwon ha fatto irruzione nelle vite di molti. Secondo i dati Istat, il lavoro da remoto ha avuto un impatto positivo sull’occupazione: durante la pandemia, le imprese che hanno potuto sfruttare questa modalità lavorativa, sono andate incontro a un calo dell’occupazione dello 0,4% contro al 3/% registrato dalle aziende che non hanno potuto mettere in campo la modalità remote working per i loro dipendenti.

Un’altra conseguenza potenzialmente positiva, è la possibilità – per chi lavora da remoto – di scegliere una residenza diversa: non sono pochi, infatti, i lavoratori che hanno scelto di trasferirisi in centri più piccoli e più a contatto con la natura, alimentando il fenomeno del city quitting. Con un potenziale impatto positivo anche sul ripopolamento dei borghi abbandonati, molti dei quali hanno infatti messo in campo alcune convenzioni ad hoc per calamitare questa inedita forma di turismo.

Tutto questo, tuttavia, non basta per dire che il lavoro da remoto rappresenta una soluzione, in toto. Come tutte le realtà complesse, lo smart working porta con sé molte nuove sfide che andranno affrontate anche sul piano contrattuale. Una delle più importanti riguarda la salvaguardia del tempo libero del lavoratore e la tutela dei suoi spazi di privacy: essere online, cioè, non dovrà equivalere a essere operativi e contattabili in qualsiasi momento.

Un altro fenomeno che abbiamo studiato nel corso di questa inchiesta riguarda le cosiddette Grandi Dimissioni (Big Quit o Great Resignation). Secondo i dati, infatti, il fenomeno delle dimissioni volontarie del lavoro ha investito massicciamente gli Stati Uniti e – in forma meno consistente – anche l’Europa. Quanto ha influito su questo la pandemia? Che impatto ha avuto l’insofferenza verso le pressioni aziendali e la produttività sfrenata soprattutto negli ambiti (ad esempio, l’high tech) che con la pandemia hanno visto crescere la domanda e la mole di lavoro in modo vertiginoso? Quanto ha influito l’esigenza di dar voce a nuove necessità, come la ricerca di un lavoro più umano e più compatibile con le proprie aspirazioni? A volte, non c’è momento migliore di una crisi per scoprire che si vuole dare una svolta alla propria vita.  Quali sono state le motivazioni dei tanti lavoratori che hanno scelto di rassegnare le proprie dimissioni in piena pandemia? Anche in questo caso, per abbozzare una risposta che non fosse troppo semplicistica, siamo partiti dai dati.

Quella che leggerete nei nostri articoli è un’inchiesta complessa. Un lavoro di ricerca da cui è impossibile desumere una “morale della favola” che ci dica se il mercato del lavoro del futuro sarà migliore di quello attuale. Una cosa è certa, però, il panorama che si sta profilando ci offrirà molte possibilità di cambiare. E anche, molte possibilità di migliorare e costruire qualcosa che esuli dall’automatismo del si-è-sempre-fatto-così. Come diceva Churchill, infatti: “non sempre cambiare significa migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”.

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Martina Fragale

Martina Fragale

Giornalista pubblicista dal 2013 grazie alla collaborazione con BuoneNotizie.it, di cui oggi sono direttrice. Mi occupo di temi legati all’Artico e ai cambiamenti climatici; come docente tengo corsi per l’Ordine dei Giornalisti e collaboro con l’Università Statale di Milano.

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